13.3 Sisa Tabet Lopez IL DUETTO DELLE CI
IL DUETTO DELLE CILIEGE1
Oltre a essere moglie di scrittore —Sahatino Lopez — e toscana come lui (era nata a
Livorno 1' 8 ottobre 1885) la signora Sisa coltivò in proprio, e con molta sensibilità, l' arte
della rievocazione, specie negli ultimi lucidi anni della sua lunga vita. Questo ricordo
d' infanzia, ambientato all' Antignano nell' autunno del 1891 e scritto nel 1973 o '74, fa
parte di un progettato volume autobiografico rimasto interrotto. I lettori della
> forse ne ricorderanno un altro capitolo, Trenta lire per un Fattori, uscito
in quella stessa estate del 1975 in cui l' autrice morì, novantenne.
Sarà stato verso il 1930, il '35, quando ancora me ne andavo in giro per conto mio, e per mio conto in
vacanza d' estate. Ero seduta nel giardino di una villetta isolata, lontano dalle radio accese, dal
traffico automobilistico, da tutti quei rumori che già cominciavano a prevalere sui suoni, i fruscii, i
canti della natura. La villa sorgeva a pochi passi dalla spiaggia. Col soffio della brezza, con l' odore
del salso sentivo provenire lo sciabordio del mare un po' inquieto. Sola, tranquilla, fantasticavo.
Ed ecco, al secondo piano della villetta, improvvisamente, il suono di un pianoforte: un
pianoforte di quelli di una volta, dal timbro un po' metallico per il troppo uso. Ai tempi della mia
infanzia e adolescenza li sentivi quasi a ogni angolo — quanto meno nei quartieri
signorili — passando per le vie, perché ancora non esistevano radio, televisione, musicassette,
trentatre giri o quarantacinque giri (e neppure i grossi dischi pesanti di Caruso) e quasi tutte le
fanciulle 'di buona famiglia' — anche se ferme, quanto a studi, alle scuole elementari o poco
più — avevano però le loro brave lezioni di piano.
Suonavano gli studi di Czerny, le Romanze senza parole di Mendelsohn, le suonatine di
Diabelli; si azzardavano nel Chiaro di luna e nei Waltzer e Notturni di Chopin. E facevano pure i
'martelletti', quella sorta di supplizio a dita rigide, che stava allo studio del pianoforte come le aste
allo scrivere e al compitare: e le scale, gli arpeggi, i solfeggi col metronomo. A certi nodi della
partitura, immancabilmente, ogni volta ripetevano il medesimo errore. C' erano maestre dal viso
smunto, dai modi supplichevoli; altre, segaligne, imperiose, tiranniche addirittura, da farti odiare la
musica per l' intera vita. Insegnavano per bisogno, per rivalsa, per tradizione di famiglia; raramente
per amore vero. Così come le loro scolarette, solo una su dieci si appassionava; tutte le altre — me
compresa — subivano. Rifiutare, rivoltarsi, era pressoché inconcepibile, qualcosa di inaudito. E,
quasi non bastasse il tedio dello studio e delle lezioni, si aggiungeva il terrore di dover sfoggiare in
pubblico (sia pure a un pubblico di parenti o amici intimi) l' esito di quelle fatiche.
1Sisa Lopez Tabet, da: La Martinella di Milano, luglio-agosto 1979, pag. 213-215.
Dunque: una villa, il mare vicino, la pineta alle spalle, la brezza; e, in uscita dalla finestra
aperta al secondo piano, il suono di quel pianoforte. Riconosco il motivo: è > dell' Amico Fritz di Mascagni. Ha poco meno della mia età: composto nel '90,
rappresentato nel '91.
Avevo dunque dai sei ai sette anni la prima volta che lo ascoltai: in una villetta di campagna
all' Antignano, alla periferia di Livorno, ai primi di ottobre. Nel giardino della villetta c' è una bimba
che gioca. Sono io.
Siamo fuggiti da Livorno incalzati dal diffondersi di una brutta febbre fra i grandi casoni dei
quartieri nuovi. Ognuna di quelle case racchiudeva uno spazioso cortile con tanti balconi, almeno
uno per appartamento: ma, in fatto di servizi igienici, non c' era che percorrere quei balconi dalla
cucina al cosiddetto 'locale attrezzato' (malissimo attrezzato: una piastra di marmo, o di legno, il foro,
una brocca da vuotare riempire vuotare riempire). Acqua corrente? zero. Ogni appartamento aveva
sotto la finestra di cucina un pozzo dal quale, a forza di braccia, si tirava su un secchio dondolante
per le esigenze della pulizia di casa. Acqua potabile? era definita > quella che
nelle giornate piovose scolava nel lavandino dei piatti perché, sopra il lavandino, sul tetto, c' era una
piccola cisterna adibita a raccogliere l' acqua piovana. E' pulita — dicevano — perché viene dal
cielo. Né si faceva troppo caso al fatto che la cisterna, scoperta, servisse da vasca per gli uccellini e
per i piccioni, o che vi entrassero polvere e sterpi portati dal libeccio.
Così, e nonostante la presenza in città del grande e famoso Cisternone, inaugurato nel 1842,
Livorno era città particolarmente esposta alle epidemie, di cui si facevano involontari portatori i
commercianti di cose esotiche, approdando al porto con i loro velieri. E' da stupirsi, tutto sommato,
che non vi siano mai stati dei casi veramente endemici di malattia. Comunque, ogni volta circolasse
(in tono molto sommesso, per non seminare il panico fra i residenti, o, peggio, la paura tra i
villeggianti venuti a fare i bagni a Pancaldi) la notizia di malattie sospette, subito la cuoca riceveva
l' ordine tassativo di far bollire il latte e l' acqua da bere, e su tutti scendeva la proibizione di
mangiare verdure crude, o frutta che non fossero preventivamente ben lavate e per sovrappiù
sbucciate. Come antidoto, ogni sera prima di andare a letto, sorgeva l' obbligo di bere un sorso di
Cognac: si era infatti diffusa la voce, accreditata dai medici, che le bevande alcooliche, e
specialmente il Cognac col suo ardore di fuoco, sbarrassero la strada a — Dio ce ne liberi — il
colera. Anche noi bambini si doveva trangugiare un fondo di bicchierino e a me quella ingozzata
dava disgusto e capogiro; o quanto meno il singhiozzo. Ricordo ancora i pianti, gli strilli, le fughe, il
nascondersi sotto i letti; e la ricompensa dolce (caramelle) se ci lasciavamo persuadere di primo
acchito.
Quel principio d' autunno all' Antignano si era appunto diffuso il timore di un morbo. Una
giovane signora, che da pochi giorni aveva dato alla luce un bambino, era morta
ufficialmente (sempre ad evitare panico e fughe di forestieri) di febbre puerperale. Ma che si
trattasse, invece, di colera, lo sospettarono i più. E, chi poteva, prese la carrozza, e via al mare!
Eccomi, dunque, nel giardino, a guardare le formiche che trascinano un grosso insetto morto.
E' pesante, ma le formiche sono molte a tirare: allora tolgo un sasso che ostacola il loro cammino, e
l' insetto predato rotola nel buchetto lasciato dal sasso, insieme con tutte quelle formiche attaccate
alle sue zampe. Ora ricomincio a scegliere i sassolini per metterli nel secchiello che mi hanno
regalato la mattina: scelgo i più belli, quelli che al sole luccicano di più. Oggi è il mio compleanno,
e — oltre al secchio — ho avuto tanti altri regali da Papà, da Mamma, dalla Nonna, dagli zii, e dalla
signora Costanza. Una delle mie zie mi ha promesso, inoltre, di portarmi — più tardi — al caffè sul
lungomare per scegliermi un bel gelato.
Il gelato! I bimbi di oggi ricevono o si comprano gelati molto spesso: non vedono più il gelato
come un premio; quasi, per i bimbi d' oggi, la coppa di gelato non rappresenta più nemmeno una
ghiottoneria. Ma allora! Soltanto nelle grandi occasioni si aveva il gelato. Era considerato 'un lusso',
una grossa ricompensa per qualcosa di bello e buono che si fosse fatto, e per una qualche occasione
davvero speciale. Solo ad alcuni bambini molto fortunati — o molto viziati — capitava che i genitori,
forse più ricchi, forse più di cuore tenero, o più golosi in proprio, concedessero il gelato regolarmente
ogni domenica. Ma erano in pochi.
Così io, mentre giuoco con i sassolini, aspetto la zia; e già col pensiero anticipo la delizia di
assaporare il mio gelato. Piano, perché duri di più. Se ne prende un po' sul cucchiaio e si lecca con la
punta della lingua: il gelato si liquefa in bocca e la inonda di fresco e di dolcezza. Non so quale
sapore sceglierò, al dunque. Potrei prenderlo di crema e cioccolato; ma anche la fragola è cosi buona!
Ecco: se la zia lo prendesse di fragola, e io di crema e cioccolato, si potrebbe sperare in un assaggio;
o in uno scambio, a metà gelato. Chissà.
L' orologio di una chiesa vicina ha battuto le quattro: fra poco dal balconcino mi chiameranno
perché vada a mettermi il vestito bianco e la cintura con dietro il gran nodo di seta azzurra >.
La nostra casa è in mezzo al giardino, e in fondo al viale c' è il cancello che dà sulla strada.
Sento dei passi avvicinarsi, vedo una sagoma ferma davanti all' inferriata, squilla la campanina:
>. Intravedo due persone dietro le sbarre: uno è di casa, cugino di Papà, l' altro è un
signore mai visto prima: con i capelli lunghi e folti, buttati all' indietro sulla fronte — strana
pettinatura. Al tintinnare di richiamo, Mamma si affaccia al balcone per vedere chi viene, o forse per
chiamarmi; o per tutte e due le cose. Guarda verso il cancello, e dà un gridolino di meraviglia e di
gioia. Poi rientra, e sento che chiama a raccolta anche gli altri, parlando ad alta voce, eccitata.
Accorrono tutti giù dalla scala, in giardino. Si passano dall' uno all' altro un nome: Mascagni!
Mascagni!
Accoccolata nel mezzo del viale, con in mano una manciata dei miei sassi, vorrei dire a Papà
e Mamma, che vanno in fretta al cancel1o: . Il
signore dai capelli lunghi avanza festosamente, un attimo si ferma ad acccennare una carezza alla
mia fronte. Intimidita, non parlo, e soltanto a un' occhiata perentoria di Mamma mormoro un saluto.
Li seguo con lo sguardo mentre entrano in casa e, quando sono arrivati al salotto, sento il brusio delle
loro voci e il rumore delle seggiole smosse. Ecco: d' improvviso distinguo anche la voce della zia,
entrata pure lei a salutare l' ospite, e che fra un momento scenderà a portarmi al caffè a scegliere il
gelato (di fragola? di panna e cioccolato?).
Torno ad accoccolarmi per terra. Le formiche devono essere riuscite a portare la loro preda
nel formicaio perché non le vedo più — o forse ho sbagliato il luogo. Il secchiello si è rovesciato, ma
io non ho più voglia di giuocare. Comincio a sentirmi inquieta: e se la zia si dimentica di me, del mio
compleanno e del mio gelato? L' orologio ha già sonato da un pezzo le quattro e mezza. Dalla strada
vedo passare le solite bambine del Collegio che tutti i giorni a quell' ora fanno una passeggiatina
verso il mare. Camminano in fila: prima le piccole, poi via via le più grandi; e — in cima e in fondo
alla fila — ci sono due suore con gli scuffoni sventolanti intorno al viso, e la corona del Rosario che
sbatte a ogni passo dell' ampia gonna. Le bimbe sono tutte vestite in grigio, con un colletto bianco e
un cappellino che pare fatto apposta per imbruttirle.
Sopra, nella villetta, qualcuno deve aver aperto il pianoforte, perché sento suonare. Non è la
solita musica. Nessuno mi chiama. Il sole, ormai nascosto dagli alberi alti, non fa più luccicare i
sassolini, diventati tutti egualmente grigi. Non c' è più dubbio: si sono proprio dimenticati di me, e
del buon gelato che io lecco piano piano per farlo durare di più.
Raccolgo, lenta, il secchiello, e torno a casa, nella stanza dei miei giocattoli (non oserei mai
entrare nel salotto senza essere chiamata). Mi butto ginocchioni per terra, con la testa appoggiata a
una seggiola. Il gatto bianco e nero mi viene incontro, salta sulla sedia per strofinarsi al mio viso.
Sento la carezza della sua lunga coda, e lo abbraccio per tuffare le mie lacrime nel suo pelo morbido.
Di sopra, suonano ancora, e adesso una voce di uomo — certamente è di quel signore venuto
di fuori via — accenna un motivo. Lo riconoscerò molti anni più tardi: il motivo del >.
A distanza di tanti anni, in una villa al mare carezzata dal vento, l' improvvisa malinconia, che
evoca dal mio subcoscente il ricordo lontano, mi fa pensare che questa musica, suonata su un vecchio
pianoforte dei miei tempi di bambina, sia proprio quella che accompagnò uno dei miei più grossi
dolori: per ingiustizia patita.
Oltre a essere moglie di scrittore —Sahatino Lopez — e toscana come lui (era nata a
Livorno 1' 8 ottobre 1885) la signora Sisa coltivò in proprio, e con molta sensibilità, l' arte
della rievocazione, specie negli ultimi lucidi anni della sua lunga vita. Questo ricordo
d' infanzia, ambientato all' Antignano nell' autunno del 1891 e scritto nel 1973 o '74, fa
parte di un progettato volume autobiografico rimasto interrotto. I lettori della
> forse ne ricorderanno un altro capitolo, Trenta lire per un Fattori, uscito
in quella stessa estate del 1975 in cui l' autrice morì, novantenne.
Sarà stato verso il 1930, il '35, quando ancora me ne andavo in giro per conto mio, e per mio conto in
vacanza d' estate. Ero seduta nel giardino di una villetta isolata, lontano dalle radio accese, dal
traffico automobilistico, da tutti quei rumori che già cominciavano a prevalere sui suoni, i fruscii, i
canti della natura. La villa sorgeva a pochi passi dalla spiaggia. Col soffio della brezza, con l' odore
del salso sentivo provenire lo sciabordio del mare un po' inquieto. Sola, tranquilla, fantasticavo.
Ed ecco, al secondo piano della villetta, improvvisamente, il suono di un pianoforte: un
pianoforte di quelli di una volta, dal timbro un po' metallico per il troppo uso. Ai tempi della mia
infanzia e adolescenza li sentivi quasi a ogni angolo — quanto meno nei quartieri
signorili — passando per le vie, perché ancora non esistevano radio, televisione, musicassette,
trentatre giri o quarantacinque giri (e neppure i grossi dischi pesanti di Caruso) e quasi tutte le
fanciulle 'di buona famiglia' — anche se ferme, quanto a studi, alle scuole elementari o poco
più — avevano però le loro brave lezioni di piano.
Suonavano gli studi di Czerny, le Romanze senza parole di Mendelsohn, le suonatine di
Diabelli; si azzardavano nel Chiaro di luna e nei Waltzer e Notturni di Chopin. E facevano pure i
'martelletti', quella sorta di supplizio a dita rigide, che stava allo studio del pianoforte come le aste
allo scrivere e al compitare: e le scale, gli arpeggi, i solfeggi col metronomo. A certi nodi della
partitura, immancabilmente, ogni volta ripetevano il medesimo errore. C' erano maestre dal viso
smunto, dai modi supplichevoli; altre, segaligne, imperiose, tiranniche addirittura, da farti odiare la
musica per l' intera vita. Insegnavano per bisogno, per rivalsa, per tradizione di famiglia; raramente
per amore vero. Così come le loro scolarette, solo una su dieci si appassionava; tutte le altre — me
compresa — subivano. Rifiutare, rivoltarsi, era pressoché inconcepibile, qualcosa di inaudito. E,
quasi non bastasse il tedio dello studio e delle lezioni, si aggiungeva il terrore di dover sfoggiare in
pubblico (sia pure a un pubblico di parenti o amici intimi) l' esito di quelle fatiche.
1Sisa Lopez Tabet, da: La Martinella di Milano, luglio-agosto 1979, pag. 213-215.
Dunque: una villa, il mare vicino, la pineta alle spalle, la brezza; e, in uscita dalla finestra
aperta al secondo piano, il suono di quel pianoforte. Riconosco il motivo: è > dell' Amico Fritz di Mascagni. Ha poco meno della mia età: composto nel '90,
rappresentato nel '91.
Avevo dunque dai sei ai sette anni la prima volta che lo ascoltai: in una villetta di campagna
all' Antignano, alla periferia di Livorno, ai primi di ottobre. Nel giardino della villetta c' è una bimba
che gioca. Sono io.
Siamo fuggiti da Livorno incalzati dal diffondersi di una brutta febbre fra i grandi casoni dei
quartieri nuovi. Ognuna di quelle case racchiudeva uno spazioso cortile con tanti balconi, almeno
uno per appartamento: ma, in fatto di servizi igienici, non c' era che percorrere quei balconi dalla
cucina al cosiddetto 'locale attrezzato' (malissimo attrezzato: una piastra di marmo, o di legno, il foro,
una brocca da vuotare riempire vuotare riempire). Acqua corrente? zero. Ogni appartamento aveva
sotto la finestra di cucina un pozzo dal quale, a forza di braccia, si tirava su un secchio dondolante
per le esigenze della pulizia di casa. Acqua potabile? era definita > quella che
nelle giornate piovose scolava nel lavandino dei piatti perché, sopra il lavandino, sul tetto, c' era una
piccola cisterna adibita a raccogliere l' acqua piovana. E' pulita — dicevano — perché viene dal
cielo. Né si faceva troppo caso al fatto che la cisterna, scoperta, servisse da vasca per gli uccellini e
per i piccioni, o che vi entrassero polvere e sterpi portati dal libeccio.
Così, e nonostante la presenza in città del grande e famoso Cisternone, inaugurato nel 1842,
Livorno era città particolarmente esposta alle epidemie, di cui si facevano involontari portatori i
commercianti di cose esotiche, approdando al porto con i loro velieri. E' da stupirsi, tutto sommato,
che non vi siano mai stati dei casi veramente endemici di malattia. Comunque, ogni volta circolasse
(in tono molto sommesso, per non seminare il panico fra i residenti, o, peggio, la paura tra i
villeggianti venuti a fare i bagni a Pancaldi) la notizia di malattie sospette, subito la cuoca riceveva
l' ordine tassativo di far bollire il latte e l' acqua da bere, e su tutti scendeva la proibizione di
mangiare verdure crude, o frutta che non fossero preventivamente ben lavate e per sovrappiù
sbucciate. Come antidoto, ogni sera prima di andare a letto, sorgeva l' obbligo di bere un sorso di
Cognac: si era infatti diffusa la voce, accreditata dai medici, che le bevande alcooliche, e
specialmente il Cognac col suo ardore di fuoco, sbarrassero la strada a — Dio ce ne liberi — il
colera. Anche noi bambini si doveva trangugiare un fondo di bicchierino e a me quella ingozzata
dava disgusto e capogiro; o quanto meno il singhiozzo. Ricordo ancora i pianti, gli strilli, le fughe, il
nascondersi sotto i letti; e la ricompensa dolce (caramelle) se ci lasciavamo persuadere di primo
acchito.
Quel principio d' autunno all' Antignano si era appunto diffuso il timore di un morbo. Una
giovane signora, che da pochi giorni aveva dato alla luce un bambino, era morta
ufficialmente (sempre ad evitare panico e fughe di forestieri) di febbre puerperale. Ma che si
trattasse, invece, di colera, lo sospettarono i più. E, chi poteva, prese la carrozza, e via al mare!
Eccomi, dunque, nel giardino, a guardare le formiche che trascinano un grosso insetto morto.
E' pesante, ma le formiche sono molte a tirare: allora tolgo un sasso che ostacola il loro cammino, e
l' insetto predato rotola nel buchetto lasciato dal sasso, insieme con tutte quelle formiche attaccate
alle sue zampe. Ora ricomincio a scegliere i sassolini per metterli nel secchiello che mi hanno
regalato la mattina: scelgo i più belli, quelli che al sole luccicano di più. Oggi è il mio compleanno,
e — oltre al secchio — ho avuto tanti altri regali da Papà, da Mamma, dalla Nonna, dagli zii, e dalla
signora Costanza. Una delle mie zie mi ha promesso, inoltre, di portarmi — più tardi — al caffè sul
lungomare per scegliermi un bel gelato.
Il gelato! I bimbi di oggi ricevono o si comprano gelati molto spesso: non vedono più il gelato
come un premio; quasi, per i bimbi d' oggi, la coppa di gelato non rappresenta più nemmeno una
ghiottoneria. Ma allora! Soltanto nelle grandi occasioni si aveva il gelato. Era considerato 'un lusso',
una grossa ricompensa per qualcosa di bello e buono che si fosse fatto, e per una qualche occasione
davvero speciale. Solo ad alcuni bambini molto fortunati — o molto viziati — capitava che i genitori,
forse più ricchi, forse più di cuore tenero, o più golosi in proprio, concedessero il gelato regolarmente
ogni domenica. Ma erano in pochi.
Così io, mentre giuoco con i sassolini, aspetto la zia; e già col pensiero anticipo la delizia di
assaporare il mio gelato. Piano, perché duri di più. Se ne prende un po' sul cucchiaio e si lecca con la
punta della lingua: il gelato si liquefa in bocca e la inonda di fresco e di dolcezza. Non so quale
sapore sceglierò, al dunque. Potrei prenderlo di crema e cioccolato; ma anche la fragola è cosi buona!
Ecco: se la zia lo prendesse di fragola, e io di crema e cioccolato, si potrebbe sperare in un assaggio;
o in uno scambio, a metà gelato. Chissà.
L' orologio di una chiesa vicina ha battuto le quattro: fra poco dal balconcino mi chiameranno
perché vada a mettermi il vestito bianco e la cintura con dietro il gran nodo di seta azzurra >.
La nostra casa è in mezzo al giardino, e in fondo al viale c' è il cancello che dà sulla strada.
Sento dei passi avvicinarsi, vedo una sagoma ferma davanti all' inferriata, squilla la campanina:
>. Intravedo due persone dietro le sbarre: uno è di casa, cugino di Papà, l' altro è un
signore mai visto prima: con i capelli lunghi e folti, buttati all' indietro sulla fronte — strana
pettinatura. Al tintinnare di richiamo, Mamma si affaccia al balcone per vedere chi viene, o forse per
chiamarmi; o per tutte e due le cose. Guarda verso il cancello, e dà un gridolino di meraviglia e di
gioia. Poi rientra, e sento che chiama a raccolta anche gli altri, parlando ad alta voce, eccitata.
Accorrono tutti giù dalla scala, in giardino. Si passano dall' uno all' altro un nome: Mascagni!
Mascagni!
Accoccolata nel mezzo del viale, con in mano una manciata dei miei sassi, vorrei dire a Papà
e Mamma, che vanno in fretta al cancel1o: . Il
signore dai capelli lunghi avanza festosamente, un attimo si ferma ad acccennare una carezza alla
mia fronte. Intimidita, non parlo, e soltanto a un' occhiata perentoria di Mamma mormoro un saluto.
Li seguo con lo sguardo mentre entrano in casa e, quando sono arrivati al salotto, sento il brusio delle
loro voci e il rumore delle seggiole smosse. Ecco: d' improvviso distinguo anche la voce della zia,
entrata pure lei a salutare l' ospite, e che fra un momento scenderà a portarmi al caffè a scegliere il
gelato (di fragola? di panna e cioccolato?).
Torno ad accoccolarmi per terra. Le formiche devono essere riuscite a portare la loro preda
nel formicaio perché non le vedo più — o forse ho sbagliato il luogo. Il secchiello si è rovesciato, ma
io non ho più voglia di giuocare. Comincio a sentirmi inquieta: e se la zia si dimentica di me, del mio
compleanno e del mio gelato? L' orologio ha già sonato da un pezzo le quattro e mezza. Dalla strada
vedo passare le solite bambine del Collegio che tutti i giorni a quell' ora fanno una passeggiatina
verso il mare. Camminano in fila: prima le piccole, poi via via le più grandi; e — in cima e in fondo
alla fila — ci sono due suore con gli scuffoni sventolanti intorno al viso, e la corona del Rosario che
sbatte a ogni passo dell' ampia gonna. Le bimbe sono tutte vestite in grigio, con un colletto bianco e
un cappellino che pare fatto apposta per imbruttirle.
Sopra, nella villetta, qualcuno deve aver aperto il pianoforte, perché sento suonare. Non è la
solita musica. Nessuno mi chiama. Il sole, ormai nascosto dagli alberi alti, non fa più luccicare i
sassolini, diventati tutti egualmente grigi. Non c' è più dubbio: si sono proprio dimenticati di me, e
del buon gelato che io lecco piano piano per farlo durare di più.
Raccolgo, lenta, il secchiello, e torno a casa, nella stanza dei miei giocattoli (non oserei mai
entrare nel salotto senza essere chiamata). Mi butto ginocchioni per terra, con la testa appoggiata a
una seggiola. Il gatto bianco e nero mi viene incontro, salta sulla sedia per strofinarsi al mio viso.
Sento la carezza della sua lunga coda, e lo abbraccio per tuffare le mie lacrime nel suo pelo morbido.
Di sopra, suonano ancora, e adesso una voce di uomo — certamente è di quel signore venuto
di fuori via — accenna un motivo. Lo riconoscerò molti anni più tardi: il motivo del >.
A distanza di tanti anni, in una villa al mare carezzata dal vento, l' improvvisa malinconia, che
evoca dal mio subcoscente il ricordo lontano, mi fa pensare che questa musica, suonata su un vecchio
pianoforte dei miei tempi di bambina, sia proprio quella che accompagnò uno dei miei più grossi
dolori: per ingiustizia patita.