Lepoca dei Gaudiya Vaisnava da Akbar al

L’epoca dei gau∂œya-vaißñava da Akbar al declino della East India Company

di Davide Tomba

1.1 Akbar

Durante il regno dell’imperatore moghul 1 Jalaladdin Akbar (1542-1605), da misero villaggio di campagna, Vrindavana divenne una importante città in prossimità della via di

comunicazione che collegava Delhi ad Agra e a Fatehpur Sikri, che a turno divennero le capitali dell’impero. Con il permesso di Akbar salito al trono nel 1556, Vrindavana si arricchì gradualmente di numerosi monasteri (ma™ha) e templi (mandira) alcuni dei quali monumentali come il magnifico tempio di Govinda fondato da Rüpa Gosvåmin (1489- 1564). I primi gosvåmin inviati da Caitanya a Vrindavana attorno al 1510 quando ancora a

Delhi governavano gli ultimi sultani Lodi seguiti da Babur 2 (1483-1536) capostipite della dinastia moghul, furono Bhugarba Gosvåmin e Lokanåtha Gosvåmin seguiti qualche anno

dopo da Rüpa Gosvåmin, Sanåtana Gosvåmin (1488-1558), Gopala Bha™™a Gosvåmin (1503- 1578), Raghunåtha Dåsa (?-?), Raghunåtha Bha™™a (1505-1579) e Jœva Gosvåmin (?-1618) . Ad essi sono attribuite complessivamente circa 220 opere. Fu ‡rœnivåsa Åcårya (XVII sec.), un discepolo di Jœva Gosvåmin nel poema di otto versi ¯a∂gosvåmi aß™aka a individuare questi sei gosvåmin tra i tanti autorevoli rinunciati gau∂œya allora presenti a Vrindavana. Il termine gosvåmin spesso tradotto letteralmente con mandriano o padrone (svåmin) di mucche (go), è un titolo onorifico meglio traducibile con signore (svåmin) dei sensi (go), è l’equivalente del titolo svåmin, signore o padrone di sé, attribuito ai saµnyåsin della tradizione da†anåmin di ‡a∞kara. E’ probabile che a Vrindavana siano stati i capifamiglia bråhmaña discepoli dei sei gosvåmin addetti al culto delle immagini sacre di K®ßña nei templi fondati da Rüpa, Sanåtana e dagli altri ad attribuire loro il titolo gosvåmin. Rüpa Gosvåmin, il fratello maggiore Sanåtana

1 La dinastia di Akbar è definita moghul ossia mongola per via della discendenza del nonno Babur (1483-1531) da Genghis Khan (1162-1221) da parte paterna e dal persiano Timur (1336-1405) da parte materna. La maggior fonte di informazioni su Akbar è l’Akbarnama e l’Ain-i-akbari di Abu Fazl (1551-1602) e il Muntakhab at-Tawarikh di Abdalqadir Badauni (1540-1615). 2

Nel 1526 Babur sconfigge a Panipat (Haryana) Ibrahim Lodi (?-1526) e si insedia a Delhi.

Gosvåmin e il loro nipote Jœva Gosvåmin appartenevano a un’alta classe di bråhmaña originari del Karnataka. E. Dimock in ‘The place of the hidden moon’ (1966), fornisce alcuni cenni biografici della vita di Rüpa e Sanåtana Gosvåmin. Il padre Kumaradeva accettando un impiego nell’amministrazione del nawab del Bengala Jalaludin Fateh Shah (1441-1497) divenne mussulmano o almeno così fu considerato dalla ortodossa comunità brahmanica. I due figli di Kumaradeva, Santo†a e Amara, i futuri Rupa Gosvåmin e Sanåtana Gosvåmin, ricevettero una vasta educazione divenendo ben versati nella letteratura sanscrita, persiana e araba e furono avviati a carriere di rilievo nella amministrazione del regno. Santo†a divenne segretario privato del sultano Alauddin Hussein Shah (1494-1519) successore di Jalaludin, con il titolo di Dabir-i-khas, mentre Amara divenne ministro delle finanze con il titolo di Sakara-mallika. A causa della conversione del loro genitore e del servizio che anch’essi prestavano al sultano, Santo†a e Amara furono esclusi dalla comunità dei bråΔmaña ortodossi e considerati fuori casta. Nella Caitanya-caritåm®ta, K®ßñadåsa Kaviråja narra che Santo†a e Amara dopo aver incontrato Caitanya, riuscirono a disimpegnarsi dal sultano che per dissuaderli imprigionò Amara, recandosi a Jagannatha Puri abbandonando ogni ricchezze e prestigio. Gopala Bha™™a Gosvåmin proveniva da una famiglia di bråΔmaña di Srirangam (Tricy, Tamil Nadu`), conobbe Caitanya quando il padre Ve∞kata Bha™™a ospitò Caitanya durante il suo pellegrinaggio nell’India del Sud tra il 1410 e il 1416. Råghunåtha Bha™™a Gosvåmin era il figlio del bråhmaña Tapana Mi†ra e Råghunatha Dåsa Gosvåmin era figlio di Govardhana Dåsa un proprietario terriero appartente ad una sottoclasse †üdra detta kayastha dedita a mansioni amministrative.

A Delhi a Babur successe il figlio Humanyum (1508-1556) che dopo averla ceduta a un governatore ribelle, riconquista Delhi per lasciarla al proprio figlio Akbar. Fu durante il regno di Akbar e con il patrocinio di Råja Man Singh I (1550-1614) che governava la vicina Amber (nei pressi dell’odierna Jaipur in Rajasthan) che oltre al tempio di Govinda vennero eretti gli altrettanto importanti templi di Madanamohana, Gopœnåtha, Vallabha e Harideva a Govardhåna mentre fu rinnovato e ampliato il più antico tempio di Ke†ava a Mathura. I cinque templi sopracitati erano costruiti in arenaria rossa e tra gli articoli (upacåra) offerti all’immagine sacra di K®ßña (mürti) vi era il bianco scacciamosche di coda di yak (bos grunniens). Dimorare in un edificio in arenaria rossa e godere dello scacciamosche di coda di yak erano prerogative regali che permesse da Akbar ai vaißñava di Vrindavana per il culto delle immagini sacre di K®ßña e ai più importanti råjput alleati. Il patronato di Råja Man Singh I e dei suoi successori che finanziarono la costruzione di templi di K®ßña a Vrindavana non si limitò ai gau∂œya, ma si estese anche alle altre tradizioni vaisñava emergenti. Nel corso del XVI e XVII sec., da semplice villaggio Vrindavana divenne uno dei più importanti luogo di pellegrinaggio vaißñava dell’India del Nord, il principale dedicato al

culto di K®ßña superando l’importanza della vicina e molto più antica Mathura. Prima di diventare un luogo sacro vaißñava, Mathura fu per lungo tempo un importante luogo di culto e insegnamento buddhista e jaina. Secondo il mito puranico, K®ßña appare a Mathura

5000 anni fa come figlio di Vasudeva e Devakœ. Appena nato nella prigione dello zio Kamsa, viene portato da Vasudeva a Nandagram dove viene adottato dal capo pastore Nanda e dalla moglie Ya†odå. K®ßña cresce a Nandagram con le mucche, gli amici pastorelli (gopa) e le amanti pastorelle (gopœ) scorazzando nelle dodici foreste che circondano Mathura. Vrindavana è una delle dodici foreste, precisamente quella dove K®ßña nelle notti di Luna piena, si dedica alla famosa danza rasa (råsa-lœlå) in compagnia delle sue amanti pastorelle (gopœ) come è descritto nei cinque capitoli (råsa-pa¡cådhyåyœ) contenuti nel decimo skandha del Bhågavata-puråña. Per questo motivo per i gau∂œya, benché Krßña sia apparso a Mathura, tra tutte le foreste Vrindavana è la più importante. Il grande afflusso di pellegrini hindü stimolarono lo sviluppo di attività commerciali e la ricchezza del luogo che favorirono la costruzione di altri templi di K®ßña da parte di ogni tipo di sette vaißñava. Al giorno d’oggi tra grandi e piccoli, importanti e trascurati, dispersi nel tessuto urbano tra bazar, giardini, ricoveri per pellegrini (dharmasala) e monasteri (ma™ha), si contano diverse migliaia di templi di Krßña e recentemente con il boom del benessere, il loro numero ha ripreso a incrementare. Man Singh I fu il più influente tra i reggenti (råjput) di città-stato del Rajasthan che accettarono di servire come vassalli l’imperatore Akbar. Råja Man Singh I ricoprì la carica di capo dell’esercito moghul e governatore di Kabul, del Bihar e dell’Orissa che conquistò per Akbar. Uno dei primi regni indipendenti annessi da Akbar vi fu quello di Baz Bahadur della incantevole Mandu (Dhar, Madhya Pradesh) sconfitto nel 1561. Alcuni råjput tennero testa a lungo ad Akbar e a Man Singh I, come Udai Singh (1522-1572) di Chittor (Mewar) e il figlio Pratap Singh (1540-1597). Nel 1568 Udai Singh fu sconfitto definitavamente da Man Singh I e costretto ad abbandonare Chittor gia persa e ripresa due volte in precedenza. Udai Singh si rifugiò nell’area di Aravalli nel basso Rajasthan dove fondò la città di Udaipur persa dal figlio Pratap Singh nel 1576 con la battagkia di Haldighati (Udaipur). Nel 1576 e nel 1580 Akbar invia il suo esercito comandato da Man Singh I alla riconquista del Bihar e del Bengala che si erano resi indipendenti e dell’Orissa che nel frattempo era diventata provincia del Bengala. L’espansione dell’impero di Akbar prosegue nel 1580 con l’annessione del Sindh e del Kashmir. Nel 1588 Akbar nomina Man Sing I governatore del Bihar e con tale incarico, nel 1592 a Mednipur (Bengala) sconfigge Sahid Khan il governatore del Bengala che si era reso indipendente. Dal 1594 al 1606 Akbar nomina Man Sing I governatore dell’Orissa. La figura di Akbar è piuttosto controversa. A lungo è stato esaltato dai governanti prima inglesi e poi indiani post-indipendenza dal Congres Party come esempio di tolleranza religiosa ed efficienza amministrativa. Da qualche tempo questa valutazione è messa in dubbio dagli storici indiani revisionisti moderni simpatizzanti dei partiti fondamentalisti hindü oltre che in parte da alcuni storici occidentali. Essi ritengono che la presunta tolleranza religiosa di Akbar fosse dettata dalla diplomazia. Si sarebbe trattato di un sovrano assoluto scaltro e opportunista che avrebbe capito che la tolleranza religiosa avrebbe semplificato il governo di un impero così vasto e costituito in larga maggioranza da hindü. Comunque sia, benché sunnita per nascita, è indubbio che Akbar aveva in mente un

grande progetto che superava le divisioni religiose. Nella sua corte egli si avvalse dell’aiuto di consiglieri e ministri senza considerare il loro credo religioso valutandone soltanto le effettive capacità e sopratutto la fedeltà al trono. Inoltre impiegò come governatori delle province del suo impero e come generali (mansabdar) del suo esercito imperiale, sia mussulmani che hindü in egual numero. In cambio del versamento di un tributo annuale e dell’offerta di un certo numero di cavallieri all’esercito imperiale, i governatori godevano della raccolta delle tasse locali, del permesso all’uso delle insigne reali e di una posizione rispettata alla corte imperiale moghul. L’assegnazione delle cariche amministrative e militari senza distinzione religiosa aveva come obiettivo conquistare la lealtà degli incaricati, separare e tenere sotto controllo persone potenzialmente pericolose che avrebbero potuto coalizzarsi contro di lui. Per creare vincoli di sangue e legare maggiormente a se questi governatori, accettò come mogli nel suo grande harem molte delle loro figlie. Nel 1562 Akbar sposa la più importante tra le sue mogli Hira Kunvarœ figlia di Råja Bharmal (1548-1574), il råjput di Amber (Rajasthan). Anche in politica estera adotta lo stesso metodo sposando le principesse di molti stati stranieri con i quali intratteneva relazioni diplomatiche. Il suo harem era composto di principesse di religione mussulmana, buddhista, cristiana ed ebrea e a tutte loro egli permise di praticare liberamente la loro fede. Tra le riforme di Akbar vi fu dal 1564 un efficiente sistema di tassazione fondiaria introdotto dal suo ministro delle finanze, l’hindü Todar Mall (?-1589), l’abolizione nel 1563 dei dazi sulle merci dei mercanti hindü e sui viaggi dei pellegrini hindü a Mathura, Gaya e Varanasi e l’abolizione nel 1564 dell’odiosa tassa di capitazione (jizya) che pesava solo sui non mussulmani esclusi i più poveri e i bråhmaña. La jizya era stata per la prima volta imposta in suolo indiana da Bin Qasim (695-715) nel Sindh appena conquistato più per la necessità di rifornire le casse statali che per discriminazione religiosa. Più tardi questa stessa tassa fu imposta dai sultani di Delhi nel XIII sec. e definitivamente abolita nel 1720 dal moghul Mohamed Shah (1702-1748). La tassa di capitazione escogitata in origine dai dotti legislatori di Damasco era applicata solo alle privilegiate minoranze monoteiste cristiane ed ebree, ossia ai protetti (dhimmi) popoli del libro (Vangelo e Torah). Il pagamento della jizya garantiva a queste minoranze il tranquillo esercizio del loro culto purchè riservato, l’esenzione del servizio militare e la protezione del sultano come gli altri sudditi. Una prima estensione della jizya si era verificato in Persia dove i califfi umaiadi e abbasidi di Bagdad dall’VIII sec. l’avevano imposta alle minoranze parsi e buddhiste. Diverso era il caso dell’India dove eccetto che nel Sindh e nel Kashmir, i mussulmani costituivano una minoranza concentrata per lo più nelle città lungo la valle del Gange dall’Uttar Pradesh al Bengala, attorno ad Ahmedabad in Gujarat e ad Hyderabad in Andhra Pradesh 3 . Nulla era più lontano dell’hinduismo dalla dottrina e dalla pratica religiosa islamica; per i mussulmani ortodossi la variegata massa di indiani non erano che indistinguibili idolatri, politeisti e infedeli (kafir). Diversamente le varie e numerose sette sciite, ismaelite e sincretiche sufi che dal XII sec. cominciano a diffondersi nell’India del Nord erano da loro

Oggi in India i mussulmani sono circa il 10% della totale popolazione indiana.

considerate eretiche e nemiche. Fin dall’instaurazione del sultanato mamaluk di Delhi nel

XIII sec., i sultani si resero conto della difficoltà a convertire gli hindü, soprattutto quelli appartenenti alle classi più elevate (bråhmaña e kßatriya) dei quali avevano bisogno per amministrare il regno. Riuscirono a convertire soltanto gli strati più bassi della società, che vedevano nell'Islam che proclamava l'uguaglianza di tutti gli uomini, un superamento della suddivisione in caste della società hindü.

I sultani di Delhi, anche i più autoritari, furono tutti più o meno reggenti laici rinunciando alla funzione di leader religiosi. Fin dall’inizio si sforzarono di dare coesione culturale a un vasto territorio con una cultura originaria profondamente diversa innanzitutto attenuando le rivalità fra le fazioni mussulmane sufi, sciite e sunnite e cercando di integrare gli hindü nell’amministrazione del regno. Già lo storico persiano Al-Biruni 4 (973-1048) al seguito del razziatore Mahmud Ghazni nel primo cap. del Kitab al-hind, aveva osservato ‘… (gli indiani) differiscono completamente da noi in materia di religione, noi non crediamo in nulla di cui loro credono e viceversa … il loro fanatismo è diretto contro chi non fa parte della loro cerchia, contro ogni tipo di stranieri che chiamano impuri (mlecha) e vietano ogni tipo di contatto con loro per non esserne contaminati … non è loro consentito accogliere nessuno che non appartenga alla loro cerchia anche se questi lo desidera o è attratto dalla loro religione … credono che non ci sia nessuna terra, nessuna nazione, nessun governo, nessuna religione e nessuna scienza come la loro … sono poco inclini a condividere il loro sapere a chi non appartiene alla loro casta e agli stranieri …’ Oltre alla vastità e alla disomogeneità della letteratura religiosa, filosofica e scientifica indiana, ciò che per secoli ha frustrato i popoli residenti a Ovest dell’Indo di capire la cultura indiana era la gelosia o spocchia dei colti bråhmaña. Sovente al termine di varie upanißad e tantra come nella Gœtå 18.67, si trovano passi che vietano espressamente la diffusione degli insegnamenti contenuti nel testo ai non qualificati o non iniziati. I bråhmaña erano totalmente disinteressati a comunicare con l’esterno, basti pensare che fino a qualche secolo fa se un hindü si recava oltre i confini della terra del dharma (l’India) era scomunicato. Soltanto all’epoca della conquista di Alessandro della Bactriana, le arti come la scultura e le scienze elleniche come l’astronomia

e la matematica hanno arricchito quelle indiane allora ancora rudimentali. E’ molto probabile che le filosofie e le dottrine indiane hanno influenzato i platonici di Alessandria (III sec d.C.), le sette gnostiche cristiane (dal III al IV sec.) e manichee dei nestoriani (dal IV-V sec.), i padri esicasti del deserto (IV-XIV sec.) e le sette sufi (dal VII sec.) del medio oriente fino al kabalismo fondato da Abulafia (1240-1291). Le storie del principe Ibrahim Ibn Adham

e di Barlaam e Josaphat originate in Persia nel VII sec., trasposizioni della antica storia della vita del Buddha, attraversano l’islam e nel IX sec., arrivano nell’occidente cristiano .

Al-biruni era dotto in astromia, fisica, matematica e medicina, studia il sanscrito e con l’aiuto di pañ∂ita traduce in persiano lo Yoga-sütra di Pata¡jali, la Bhågavad-gœtå e il såµkhya-sütra di Kapila e in sanscrito dei testi di matematica euclidea. L’analisi delle filosofie e religioni degli indiani comparate a quelle dei greci classici, dell’islam del cristianesimo e dell’ebraismo, contenuta nell’Indica è approfondita e non bigotta.

La medicina indiana esposta nella Caraka-saµhitå e Su†ruta-saµhitå (IV-VI sec.) e la matematica esposta da Brahmagupta (VII sec.) nel Bråmaspu™asiddhånta che introduce lo zero e il sistema decimale, dall’IX sec. interessano gli studiosi persiani e arabi. Mentre in pratica, nei trattati religiosi e filosofici composti dai bråhmaña non c’è traccia di influenze della filosofia greco-romana, né di dottrine cristiane, eccetto forse Madhva (1238-1317) che nella formulazione della dottrina dvaita potrebbe aver preso qualche idea dalle comunità nestoriane e islamiche allora presenti nel Malabar. Le alte caste hindü resistettero orgogliosamente ai tentativi di conversione operati dai mussulmani dopo il IX sec. e alla discriminazione di cui furono oggetto. In ogni caso la forma di islam che maggiormente riescì ad attecchire e a diffondersi in India è il sufismo alcune delle cui sette furono ampiamente influenzate dal tantrismo hindü e buddhista. Nell’India del Nord, i primi esperimenti di convergenza religiosa islam/hindü si manifestano per opera dei sant nirguñi Kabir (XIV sec.), Dådü (1544-1603), Guru Nanak (XV sec.) e molti altri tutti ostili all’adorazione degli idoli e provenienti da caste basse. Già nel XI sec. in Punjab si era diffusa la setta sufi di Gazi Mian la cui dottrina e pratiche erano molto influenzate dal buddhismo tantrico . Nell’India del Nord-Ovest la setta sufi più importante era la chisti fondata da Khvajah Muinuddin Chisti (1141-1230) alla cui tomba ad Ajmer Akbar si recò più volte in pellegrinaggio a piedi. Un importante ramo chisti fu fondato a Delhi da Nizamuddin (1238-1325) e dal suo discepolo Amir Khusro (1253-1325) il padre del qawali 5 . Nizamuddin predicò una religione di amore per Dio oggetto dell'amore dell'asceta

e per l’umanità che si manifestava nella tolleranza che toccava il cuore anche degli hindü. Oltre alla nizarpanthi, un ramo ismailita diffuso nel Sindh da Pir Sadruddin (XIV sec.), tra le più importanti sette sufi sincretiche diffuse nell’India del Nord-Ovest vi fu quella di Baba Farid (1173-1280) e di Lal Shahbaz Qalander (XIII sec.) diffuse nel Sindh e nel Punjab. I sufi degli ordini dei malamatiya ‘i biasimati’ e dei qalandariya ‘vagabondi’ rigettavano la vita mondana ed erravano per il paese mendicando attirandosi il biasimo dei mussulmani ortodossi per via della loro condotta scandalosa e libertina. I sufi si opponevano alle manifestazioni esteriori della fede considerando vanagloria palesare la propria religiosità e la santità. Altre sette sciite sufi sincretiche furono la shattari e la rasul-shahi (XIV sec.) che fecero proprio l’Am®takuñ∂a un tardo testo di hatha-yoga attribuito a Goraknåth e la satpanthi di Iman Shah (1430-1520) di derivazione ismaelita-nizarpanthi diffusa in Gujarat e Rajasthan e quella di Abdul Quddus Gangohi (1456-1537) autore del Rushanama, testo molto influenzato dalle dottrine dei nåth. Nel Sindh, Punjab, Rajasthan e Uttar Pradesh si diffusero la sette di Hajiratan/Ratannåth (

XVI sec.) , di Devacånd (1581-1655) fondatore dei prañåmœ, di Jagjœvan (XVII sec.) fondatore dei satnåmœ, di Sarmad Kashani (XVII sec.) fatto giustiziare da Auranzeb per il suo sostegno a Dara Sikoh e di Råmcarañ (1720-1799) fondatore dei råmsnehi . In Bengala il sufi Shaikh Zahed (XV sec.) compose il poema in versi bengali Adyaparichaya, Sayyed Sultan (1550-1648) compose il J∞ånapradœpa e Ali Reza (XVII

Il genere di musica e canto tradizionale delle canzoni devozionali sufi in urdu.

sec.) compose il J∞ånasågara e lo Yogakalandar o lo yoga dei qalandariyah. Tutti e quattro le opere erano molto influenzate dalle dottrine tantriche sahajœya e dei nåth. In Andhra Pradesh nel XVI sec. il nåth N®simha Sarasvati (1378-1458) diffonde il culto tantrico di Dattatreya trasfigurato in loco dalle sette sufi in Shah Datta o Alam prabhü. Tutti i fondatori di sette sincretiche a cominciare da Kabir composero versi, canzoni o poemi mistici nelle loro lingue dialettali . Molto apprezzati furono il Padmavat di Malik Muhammad Jayasi (1477-1542) poeta avadhi alla corte del nawab di Lucknow e il Madhumalati di Mir Sayyid Manjhan (XVI sec.), chiari esempi di sincretismo di sufismo e tantrismo destro.

I rapporti tra sunniti e sufi sono sempre stati conflittuali, di fatto non appena i sunniti si assicuravano l’appoggio dei re o dei governatori, facevano perseguitare i sufi accusandoli di essere eretici e ignoranti. Ciò che più disturbava i sunniti dei sufi erano le contaminazioni dottrinali dovuta alla loro tolleranza religiosa, la venerazione dei maestri (pir e shaikh) come i guru hindü da vivi e da morti nei loro cenotafi (dargah), le pratiche esoteriche di meditazione, il ricorso alla magia e all’astrologia, l’espressione devozionale attraverso il canto, la poesia, la musica e la danza, l’idea che il paradiso e l’inferno sono dentro di noi, ecc. Sovente per proteggersi i sufi hanno fatto ricorso alla dissimulazione (tabiya) ossia l’apparire in pubblico come sunniti ortodossi o addirittura il fingersi pazzi o malfattori per farsi disprezzare e lasciare in pace. Il sincretismo religioso diviene dottrina di stato con Akbar (XVI sec.) e il suo sfortunato nipote Dara Sikoh (XVII sec.) assassinato dal meno tollerante fratello Aurangzeb. Nel 1571 per celebrare l’annessione del Gujarat e per avvicinarsi al luogo dove viveva Salim Chisti (1478-1572), un noto santo sufi, Akbar comincia ad edificare Fatehpur Sikri (la città della vittoria), una nuova capitale a una trentina di km. da Agra (Uttar Pradesh). Dopo la morte prematura dei suoi due figli Hasan e Husain, Akbar visitò Salim Chisti che lo benedisse con la nascita di un figlio. Quando Jodhabai, una delle sue mogli hindü partorisce un figlio, Akbar in onore del santo sufi, lo chiama Salim. Nel 1575 fà erigere a Fatehpur Sikri una sala delle assemblee religiose (idabat-khana) all’inizio riservata ai suoi consiglieri sunniti, ma poi disgustato dalla loro arroganza e scarsa fedeltà diventa, il giovedì sera 6 una sorta di parlamento di rappresentanti delle diverse fedi religiose: sunniti, sciiti, hindü, parsi, jaina, sikh, buddhisti, cristiani ed ebrei. Tutto ciò accadeva mentre buona parte dell’Europa e delle colonie spagnole era sconvolta dall’inquisizione cattolica. Dalle cronache pare che Akbar dal 1578 cominciò a trascurare la pratica delle cinque preghiere quotidiane, l’osservanza del digiuno del mese di ramadan, ecc. Differentemente dai suoi avi, Akbar consumava moderatamente bevande alcoliche e oppio, diventa quasi vegetariano, non abbandona del tutto la caccia, ma spesso libera la selvaggina dopo la cattura. Con l’editto (firman) della pace generale (suhli-kull) del 1579, Akbar proclama la toleranza di tutte le religioni e stabilisce che in ogni questione civile e religiosa, egli ha l’ultima parola. In pratica assume il ruolo di guida religiosa e temporale islamica (califfo)

Per gli hindü il giovedì in hindœ detto gurüvår o b®haspativår, è il giorno più adatto per le discussioni religiose perché gode dell’influenza benefica di Giove o guru.

sottraendosi all’autorità politica dello scià di Persia e spirituale del gran mufti sunnita di Damasco. Da allora Akbar comincia a permettere liberamente la costruzione di ogni tipo di templi e monasteri hindü, la restaurazione di quelli in disuso, la possibilità di accettare donazioni esenti da tasse e la pubblica celebrazione di festività religiose hindü. Nel 1582 introduce il calendario solare mettendo da parte quello tradizionale islamico lunare basato sull’egira. Akbar introduce nel cerimoniale di corte usi e costumi hindü come la concessione dell’udienza (dar†ana) e la prostrazione completa (sijdah) al suolo dei sudditi di fronte all’imperatore. Questi provvedimenti considerati idolatri e pagani furono molto criticati dagli eruditi (ulema) sunniti che tradizionalmente ricoprivano le cariche di giudici (kazi) e consiglieri dotti in legge coranica (sharya) e teologi (sadr) per i quali anche solo l’aver accettato per sé uno dei nomi di Allah, Akbar il grande, era una eresia. Tra questi lo storico Abdalqadir Badauni (1540-1615) nel Muntakhab At-Tawarikh giudica questi provvedimenti sintomi di apostasia. Quando questi critici alzavano troppo la voce o sospettava che tramassero per rovesciarlo dal trono, Akbar reagiva allontanandoli o mettendoli a tacere. Nel 1583 con un editto Akbar regola la macellazione degli animali e proibisce quella dei bovini, nel 1584 permette ai mussulmani di radersi la barba, il commercio di bevande alcoliche e istituisce nelle città dei quartieri separati per le prostitute. Nel 1585 a causa dell’esaurimento delle risorse idriche, Akbar abbandona Fatehpur Sikri trasferendo la capitale prima a Lahore e poi di nuovo ad Agra. Nello stesso anno permette ai bråhmaña di risolvere le controversie legali tra hindü, nel 1590 scoraggia l’immolazione (satœ 7 ) delle vedove hindü per le quali sostenne il secondo matrimonio e nel 1593 permette anche ai cristiani di edificare chiese in tutto il regno e di fare proseliti. Grazie al controllo della ‘via della seta’ e dei porti portoghesi sull’oceano indiano che diventano i terminali delle vie marittime di commercio con l’Europa, l’impero di Akbar e dei suoi immediati successori sviluppa una ricchezza favolosa raccontata nei resoconti dei viaggiatori provenienti da ogni dove. Il triangolo Delhi, Agra e Fatehpur Sikri diventa la capitale culturale orientale del mondo islamico. I mercanti di Akbar procuravano ai mercanti europei tessuti, sete e spezie, ma poco interessati agli scambi con le merci europee, preferivano il pagamento in oro, argento

e gemme (smeraldi) che agli europei non mancavano approvigionandosi di tali beni preziosi nelle miniere del Sud-America o depredando i galeoni spagnoli. La ricchezza e il clima di pacifica convivenza religiosa dell’imero moghul favorì gli scambi culturali tra

Letteralmente il termine satœ significa donna virtuosa. Il rito del satœ prende origine dal mito dell’auto immolazione di Satœ la casta consorte di ‡iva narrato in vari puråña. Satœ moglie di ‡iva si reca non invitata al matrimonio di una sorella, il padre Dakßa offende ‡iva e Satœ dalla collera si incenerisce. ‡iva non muore,

rimasto vedovo più tardi si risposa con Satœ rinata come Parvatœ. Il satœ mirava alla conservazione dell’onore del marito defunto determinato dalla castità della vedova, nel timore che essa fosse costretta alla prostituzione. Tecnicamente la moglie diventa vedova solo dopo la cremazione del marito. Tanto era temuto lo stato di vedovanza che le mogli hindü eseguivano voti per non diventare vedove come il såvitrœ-vrata ispirato alla storia di Satyavån e Såvitrœ narrata nel Vana-parvan del Mahåbhårata, auspicando la loro morte prima di quella del marito. Oltre che nel controverso passaggio del Rg-veda 10.18.7, la pratica del satœ è consigliata nel Garuda-puråña 2.4.91-100, nel Brahma-puråña 4.18-19, nell’ Agni-puråña 222.19-23, nel Vißñu- puråña 5.38 e in vari dharma-†åstra come nel Vißñu-sm®ti 25.14, nel Parasara-sm®ti 4.28 e nel Dakßa-sm®ti 4.18-

19. In ambito kåvya, nel quarto atto del Veñisamhåra, Bha™™a Nåråyana (VIII sec.) narra che la vedova dell’eroe va sul campo di battaglia e si immola nella pira del marito. Esegue il satœ anche la regina Ya†omatœ nell’Harßacarita sebbene lo stesso Bañabha™™å (VII sec.) nel Kådambarœ abbia criticato tale atto.

mondo islamico e indiano e la fioritura delle arti, delle scienze e della letteratura. Diede nascita a scuole di pittura e miniatura che arricchirono ogni tipo di manoscritto 8 . Benchè Akbar fosse illetterato, probabilmente era dislessico, possedeva una vasta e favolosa biblioteca e promosse la traduzione in persiano di molti testi sanscriti che riguardavano la musica, la poesia, l’architettura, ecc., e le scienze come la medicina, l’astronomia, la matematica, ecc. Tra gli altri furono tradotti e studiati per la prima volta fuori dall’India l’Atharva-veda, il Råmåyaña, il Mahåbhårata lo Yogava†istha, il Bhågavata-puråña e la Hitopade†a. Secondo una diffusa tradizione postuma, tra i suoi nove principali ministri e consiglieri (navaratna) figurano Faizi (1547-1595), poeta di corte persiano e Abdul Rahim (1556-1626) poeta di corte hindi 9 . Fin dalla gioventù fu grande estimatore del poeta persiano Hafiz (XIV sec.), ma in seguito incoraggiò anche la composizione di opere in versi nelle lingue locali, l’urdu e l’hindi, Attraverso i portoghesi con i quali era venuto in contatto con la conquista del Gujarat nel 1572-1573, Akbar diventa curioso del cristianesimo. Nel 1579-1583 invita una prima missione di gesuiti portoghesi da Goa che arriva a Fatehpur Sikri guidata da Jerome Xavier (1595-1617) e Antoni de Monserrat (1536-1600) al seguito di una delegazione diplomatica. Questa missione gesuita è seguita da una seconda nel 1591-1592 e da una terza nel 1595-1605. Akbar accolse i gesuiti ogni volta con gentilezza e discusse con loro di religione nella sua corte. I gesuiti gli regalarono Bibbie e immagini della Vergine Maria, Cristo e Mosè e scambiarono la sua disponibilità al dialogo come desiderio di farsi convertire. Akbar nominò Antoni de Monserrat insegnante di Murad, uno dei suoi figli, ma non del tutto convinto evitò di farsi battezzare e nel 1605 i gesuiti delusi se né tornarono a Goa.

Secondo il Dabestan 10 , nel 1584 Akbar fondò una confraternita sufi senza libri sacri, sacerdoti né luoghi di culto chiamata din-i-ilahi (fede divina) alla quale oltre ai cortigiani mussulmani aderì solo l’hindü Birbal. Si trattava di una dottrina sincretica fondata sulla ragione e composta di precetti etici e morali universali come la carità, la continenza, il vegetarianesimo, la compassione e il non proselitismo. Pare che per un periodo Akbar cominciò ad adorare il fuoco come i parsi e il Sole come gli hindü con la recitazione dei mille nomi del Sole (‡uryasaha†ranåma-stotra) e con altri riti quotidiani di sua invenzione. In ogni caso, oltre la intima cerchia di cortigiani, gli aderenti alla nuova fede furono pochi

e venne presto dimenticata dopo la sua morte. Durante il suo regno Akbar si dedicò instancabilmente ad allargare l’impero con guerre di aggressione e annessioni pacifiche e a sedare rivolte interne una delle quali guidata da suo figlio Jahangir con il quale poi si riconciliò. Alla morte di Akbar, l’impero moghul comprendeva l’Afganistan, tutta l’India del Nord dal Sindh al Bengala e il Madhya Pradesh e contava oltre cento milioni di sudditi.

Alla British Library a Londra si può ammirare il Razmnama, un manoscritto persiano miniato del Mahåbhårata, mentre al Metropolitan Museum (New York) è conservato l’Harivaµ†a. Ambedue le traduzioni illustrate furono commissionate da Akbar. 9

Gli altri sette erano: Abu Fazl (1551-1602) storico biografo di Akbar, Man Sing (1550-1614) råja di Amber e capo dell’esercito imperiale, Miyan Tansen (1493-1586) musicista di corte, Todar Mall (?-1589) ministro del tesoro, Birbal (1528-1586), Fakir Aziao-din (?-?) e il Mullah Do Piaza (?-?) consiglieri religiosi di Akbar. 10

Un trattato persiano composto da Mohsin Fani (XVII sec.) dove sono analizzate e comparate le varie sette hindü e sufi allora presenti nell’India moghul.

1.2 Jahangir, Shah Janan e Aurangzeb

Il periodo fiorente di Vrindavana proseguì anche durante il regno dei moghul successori di Akbar. Jahangir (1569-1627) figlio di Akbar e di Hira nato a Fatehpur Sikri, salì al trono grazie all’appoggio di Man Singh I di Amber e conservò l’atteggiamento religioso tollerante del padre. Pare che Jahangir si ritenesse discepolo di Miyan Mir un santo sufi della setta quadiriya e di Jadrup Gosain uno yogin vaißñava. Shah Jahan (1592-1666) figlio di Jahangir è ricordato per l’amore che lo legava alla sua prima moglie Arjumand Banu (1593-1631) da lui chiamata Muntaj (gioiello) morta dando alla luce il quattordicesimo figlio e per il consumo smodato di oppio al quale sconsolato si abbandonò da vedovo. Nel 1639 fonda Shahjahanabad (oggi old Delhi) la nuova capitale dove stabilisce la sua residenza nel Lal qila (Forte Rosso) adiacente alla grande moschea chiamata jåmå masjid. Nel 1653 Shah Jahan completa ad Agra (Uttar Pradesh) la costruzione del magnifico cenotafio della moglie in marmo bianco di Makrana (Rajasthan) noto come Taj Mahal (il palazzo di Muntaj). Shah Jahan ebbe quattro figli, il primogenito erede designato al trono Darà Sikòh (1615- 1659) governatore della provincia di Allahabad, Sujah governatore del Bengala, Murad governatore del Gujarat e il più giovane Aurangzeb (1637-1707). Dara Sikoh e Aurangzeb non avrebbero potuto essere più diversi. Dara Sikoh, affiliato alla setta sufi afgana quadiriya, non era un uomo d’azione, piuttosto si interessava di religione e filosofie indiane, mentre Aurangzeb era un ambizioso e capace amministratore, ma un fervente sunnita che si circondava di dotti in legge coranica. Dara Sikoh è ricordato per aver commissionato il Sirr-

i akbar,’la prima traduzione in persiano di cinquanta upanißad, l’Ab-i zindagì una traduzione della Bhagavad-gœtå e per aver composto il Majm’al-bahrain testo sincretico nel quale cerca di dimostrare che non c’è differenza tra hinduismo e islam. Dara Sikoh sostiene che i Veda e le upanißad sono scritture rivelate come il Corano, che i saggi veggenti (®ßi) loro autori sono profeti come Gesù e Maometto, che Bråhma, Vißñu e Siva sono angeli e che il Sè supremo o Paramåtman è Allah. In quegli anni, Vanamåli Dåsa (?-1668), conosciuto anche come Wali Råm, un poeta al servizio di Dara Sikoh e discepolo come Dara Sikoh del sufi Shah Badakshi, traduce in persiano due testi advaita: il Prabhodacandrodaya di K®ßña Mi†ra (XI sec.) e lo Yoga-våsiß™ha (IX sec.), mentre Chandarbhan Brahman (?-1658) pañ∂ita di corte, traduce l’Åtmavilåsa attribuito a ‡a∞kara (VIII sec.) e l’Aß™åvakra-gœtå. Quando nel 1658 l’anziano Shah Jahan si ammala, nella lotta alla successione al trono imperiale che si accese tra tutti i suoi quattro figli in particolare Dara Sikoh e Aurangzeb, ebbe la meglio quest’ultimo grazie all’appoggio della sorella Roshanara (1617-1671). Dopo aver sconfitto in battaglia Dara Sikoh e i suoi alleati, Aurangzeb lo fece trascinare a Delhi, condannare per eresia e giustiziare nel 1659 11 .

Fonti di informazioni dirette sul regno di Shah Jahan, i suoi figli e il successore Aurangzeb, sono il ‘Viaggio nell’impero dei mogul’ di F. Bernier (1625-1688), un medico francese che dal 1658 al 1669 servì alla corte di

Aurangzeb accusò il padre Shah Jahan di aver sperperato ingenti risorse per la costruzione del Taj Mahal portando l’impero quasi alla bancarotta, lo fece imprigionare nel forte rosso di Agra situato nei pressi del Taj Mahal oltre il fiume Yamunå dove morì nel 1666. Rimanevano gli altri due fratelli di Aurangzeb, Sujah e Murad che, pur avendolo aiutato a sconfiggere Dara Sikoh, potevano aspirare al trono. Aurangzeb si liberò anche di loro, il primo nel 1660 e il secondo nel 1662. Nel 1671 non avendo più bisogno neanche dy Roshanara pare che Aurangzeb, a causa della scandalosa promiscuità sessuale della sorella, la faccia avvelenare. In materia religiosa, la politica di Aurangzeb prese subito le distanze

da quella del padre, del nonno e del bisnonno Akbar. Lasciandosi consigliare da bigotti dotti sunniti, Aurangzeb cominciò a governare con il pugno di ferro in accordo alla legge islamica (sharya). Aurangzeb riformò la giustizia e tentò di eliminare l’endemica corruzione degli esattori delle tasse con una riforma fiscale tesa a favorire i contadini e commercianti. Tuttavia nel 1679 per sanare le finanze dell’impero, reintrodusse la jizya, ma non ai råjput fedeli alleati e nuovi dazi doganali discriminanti per i mercanti e pellegrini non mussulmani. Con una serie di editti eliminò dalla corte la festa della primavera hindü (vasanta-pa¡camœ), il consumo di alcolici, la musica, la danza e le cortigiane (baiji). Inoltre vietò la costruzione di ogni tipo di luoghi di culto non islamici e la celebrazione pubblica di ogni tipo di festa religiosa no islamica. Istituì la figura del censore (muhtasib) guardiano della pubblica moralità per combattere nelle città il consumo di bevande alcoliche e gli spettacoli indecenti e la prostituzione. Inoltre declassò i råjput che dal tempo di Akbar servivano come vassalli nel suo esercito, perseguitò gli eretici sciiti e i sufi contaminati dall’hinduismo. Nel 1669 Aurangzeb fece demolire il tempio di Visvanåtha (‡iva) a Varanasi che era stato restaurato nel 1585 da Todar Mall (?-1589) ministro delle finanze di Akbar. Al posto del tempio di Vi†vanåtha, Aurangzeb fà erigere la moschea ancora esistente. 12 Nel 1688 Aurangzeb fa erigere una moschea dove si trovava l’antico tempio di Ke†ava 13 (K®ßña) a Mathura eretto nel luogo dove secondo la tradizione apparve K®ßña

ampliato da Vœrasiµha mahåråja di Orcha (Madhya Pradesh) durante il regno di Akbar. Da allora Mathura viene rinominata Islamabad in tutti i documenti moghul. Nel 1692 irritato dallo spirito indipendente degli hindü di Jagannatha Puri, Aurangzeb ordina la demolizione del tempio di Jagannåtha. Il locale mahåråja Divyasimha Deva corrompe i funzionari inviati da Aurangzeb e salva il grande tempio. Mentre nel 1706 l’ordine di demolizione del tempio di Somnath in Gujarat viene eseguito. Tuttavia le distruzioni dei templi hindü ordinate da Aurangzeb non furono sistematiche, piuttosto erano un provvedimento punitivo al quale egli ricorreva in caso di rivolte o slealtà. Recentemente sono state documentate anche delle donazioni che egli fece ad alcuni monasteri (ma™ha) hindü.

Aurangzeb a Delhi e ‘La Storia do Mogor’ del viaggiatore italiano Niccolao Manucci (1639-1717). 12

Nel 1780 la regina marathi Ahilyabai Holkar (1725-1795) fa erigere il nuovo tempio di Vi†vanåtha adiacente

alla moschea di Aurangzeb. 13 L’attuale tempio di Ke†ava adiacente alla moschea di Aurangzeb completato nel 1965 è stato finanziato dalle famiglie Birla e Dalmia.

Quanto Akbar per lungo tempo è stato esaltato per la sua tolleranza, altrettanto Aurangzeb a volte ingiustamente è stato accusato di intolleranza e crudeltà. Certamente Aurangzeb era un mussulmano osservante attento a dare il buon esempio e non tollerava le commistioni di hinduismo e islam, ma è stato appurato che durante il suo regno non si verificarono mai conversioni forzate all’islam. Considerando nella lunga storia indiana pre dominazione mussulmana l’alta frequenza di eventi bellici tra regni hindü dove normalmente si verificavano distruzioni di templi e furti di idoli, le accuse di iconoclastia che alcuni storici hindü moderni rivolgono ad Aurangzeb, appaiono esagerate. Nel 1669 Aurangzeb seda la rivolta dei contadini hindü della casta jåt 14 oppressi dalle tasse e dalla discriminazione che scoppiò a Mathura appoggiata da alcuni locali amministratori (zamindar). Nel 1672 fu la volta dei satnåmœ una sorta di setta sincretica hindü, sikh e mussulmana sedata a Narnaul (Haryana). La setta sikh fondata da Guru Nanak durante il regno di Akbar era cresciuta sotto Shah Jahan, ma fu perseguitata da Jahangir che nel 1606 fece uccidere il quinto guru Guru Arjan (1563-1606) perchè alleato del figlio Kusrau in una rivolta. Più tardi i sikh cominciarono a reclamare sovranità territoriale e per questo motivo nel 1675 a Delhi Aurangzeb fece convocare e condannare a morte Tegh Bahådur (1621-1675) il loro nono guru. Il figlio di Tegh Bahadur, Guru Govind (1666-1708) divenuto il decimo e ultimo guru fonda la comunità dei puri (khålså), costituisce un esercito con il quale occupa il Punjab e resiste a tutti i tentativi di repressione di Aurangzeb e dei suoi successori fino alla annessione del regno sikh agli inglesi nel 1859. Nel 1699 in una grande cerimonia, Guru Govind impose ai suoi seguaci l’adozione di cinque vistosi simboli religiosi o cinque k: barba e capelli (kesh), pettine (kangha), pugnale (kirpan), bracciale di ferro (kara) e pantaloni (kach) da esibire fino al raggiungimento della completa indipendenza territoriale e di culto. Questa prescrizione è valida ancora oggi. Tra il XVI e il XVII sec., nell’impero moghul entra in crisi l’economia basata sull’agricoltura

e la rendita fondiaria. I contadini e i proprietari terrieri (zamindar) si rivoltano contro l’imposizione di tasse sempre più esose pretese da Aurangzeb per finanziare la macchina amministrativa dell’impero e le guerre di espansione. Il mondo si stà evolvendo, è nel commercio globale che si fonda il futuro e le potenze europee avide di beni e merci orientali sviluppano la navigazione disegnando le rotte marittime che evitando il califfato ottomano, collegano l’Europa con le future in India e oltre. Nel 1685 conquista i sultanati sciiti di Bijapur (Maharastra) e Hyderabad (Andhra Pradesh) dove fà occupare la moschea sciita dal la sua cavalleria. Tuttavia, pur stabilendosi ad Aurangabad (Maharastra) per oltre dieci anni, Aurangzeb non riuscirà mai a pacificare del tutto i nuovi regni conquistati. Dal 1659 i marathi principi hindü ribelli alla guida di torme di banditi (piñ∂årœ) eseguivano continue scorribande nel Maharastra e nel Madhya Pradesh formalmente province del regno moghul . ‡ivajœ Bhonsle (1627-1680) coalizzando sotto al suo comando i principi

Dopo la morte di Aurangzeb, i jåt si raccolgono sotto la guida di Suråj Mall (1707-1783), costituiscono il regno indipendente di Bharatpur (Rajasthan) che passa sotto il controllo degli inglesi nel 1827.

marathi, nel 1664 saccheggia Surat (Gujarat) ma l’anno successivo fu fermato da Jai Singh I (1611-1667) di Amber (Rajasthan). Nel 1670 ‡ivajœ isituisce un regno indipendente hindü nell’odierno Maharastra con capitale Nagpur che ricorda i fasti dell’impero hindü di Vijayanågara (Hampi, Karnataka) fiorente dal XIV al XVI sec. Nel 1672 saccheggia nuovamente Surat. Malgrado il successo, il regno di ‡ivajœ rimane basato su una coalizione di principi turbolenti e non perde mai il suo essenziale carattere precario e predatorio. Alcuni storici moderni hindü nazionalisti a cominciare da B.G. Tilak hanno creato un vero e proprio mito di ‡ivajœ paladino degli hindü e acerrimo nemico del mussulmano Aurangzeb caricando lo scontro di valori confessionali. Certamente ‡ivajœ era sostenuto dagli hindü, lui stesso era fervente †aiva; nel 1674 un consesso di bråΔmaña a Varanasi (Uttar Pradesh) benchè di nascita †üdra, lo promosse al rango di kßatriya e lo dichiarò re. Tuttavia sia ‡ivajœ che Aurangzeb avevano per alleati råjput hindü e nawab mussulmani e i loro esercito composti da mercenari e regolari di ogni fede e non discriminati. Nel 1681 Aurangzeb è tradito dal proprio figlio Akbar II figlio che si allea con i råjput di Udaipur e Johdpur (Rajasthan) in rivolta. Nel 1684 Akbar II si allea anche con Sambajœ (1657-1689) il figlio di ‡ivajœ, ma Aurangzeb sconfigge in battaglia Sambajœ, lo fa giustiziare

e dissolve il regno marathi. Malgrado ciò, i marathi si riorganizzano presto e riprendono a dare noia ad Aurangzeb che non riuscirà mai a domarli del tutto. Tra il 1701 e il 1704 Aurangzeb seda una nuova rivolta dei sikh in Punjab guidati da Guru Govinda Singh (1666- 1708) e quella guidata dal bandito Papadu (?-1710) nel Telengana (Andhra Pradesh). Dopo anni di guerre e futili vittorie, l’impero moghul è finanziariamente dissanguato. Stanco e deluso, Aurangzeb scompare nel 1707 lasciando l’impero a 17 figli e varie decine di nipoti in lotta per occupare il trono. Aurangzeb è sepolto in un umile cenotafio ad Aurangabad (Maharastra), niente a che vedere con i maestosi mausolei di Akbar ad Agra e di Humanyum a Delhi e con lui ha termine anche la politica di espansione e centralizzazione dell’impero moghul.

1.3 Declino dei moghul e ascesa della East India Company

Dopo la scomparsa di Aurangzeb, altri nove moghul spesso dopo aspre lotte di successione si avvicenderono al trono a Delhi. In questo periodo gli stati vassalli che avevano composto il grande impero moghul fino ad Aurangzeb, si resero indipendenti. Alla morte del decimo e ultimo guru dei sikh, Govinda Singh (1666-1708), Banda Singh Bahadur (1670-1716) guida una rivolta dei sikh in Punjab contro Bahadur Shah I (1643-1712). Banda Singh viene sconfitto da Farrukhsiyar (1685-1719) nipote di Bahadur Shah I. Nel 1724 i nizam di Hyderabad (Andhra Pradesh) si rendono indipendenti, seguiti nel 1730 dai nawab di Oudh (Lucknow, Uttar Pradesh), del Bengala, dell’Orissa e del Bihar. Nel 1739 Muhammad Shah (1702-1748) non riesce ad evitare il sacco di Delhi del persiano Nadir Shah (1688-1747) che si ritira accontentandosi dell’annessione del Sindh (Pakistan). Nello stesso periodo