Kantor e Beckett kantor pertanahan

laboratorio est/ovest
leo ~ miscellanea
collana diretta da
Luigi Marinelli
25

Politica dell’arte, politica della vita
Tadeusz Kantor fra teatro, arti visive e letteratura

a cura di Luigi Marinelli, Valentina Valentini e Andrea Vecchia

in memoria di Józef Chrobak

Lithos

Grafica e impaginazione: Paolo Tellina
Logo “leo”: Donato Sammartino

© 2018 Lithos Editrice
Via Vigevano 2 – 00161 Roma
Tel./Fax 0644237720

www.lithoslibri.eu
lithoslibri@libero.it
ISBN 978-88-99581-65-7

INDICE

Premessa di Luigi Marinelli, Valentina Valentini

9

«NoN si eNtra a teatro impuNemeNte»
KaNtor e il teatro del NoveceNto europeo
Requiem per Tadeusz Kantor
Michal Kobialka

21

Kantor redivivo: l’arte come un campo di battaglia
Katarzyna Fazan


33

Tadeusz Kantor e la forma della danza macabra:
ballare con e contro la morte
Helga Finter

55

L’opera di Kantor come prologo alle scene della dissociazione
nel teatro di figura contemporaneo
Didier Plassard

65

Tadeusz Kantor: verso un “teatro invisibile”
Karolina Czerska

73

Kantor – Tatlin – Mejerchol’d. Il costruttivismo

nella prima e nella seconda avanguardia
Katarzyna Osińska

93

«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett
Tommaso Gennaro e Luigi Marinelli

111

Tra il mondo (vero) e i meta-mondi, oscillando alla soglia.
Tadeusz Kantor e la logica del Novecento
Giovanni Iorio Giannoli

125

«NoN ho dei caNoNi estetici»
KaNtor, artista plastico del NoveceNto
Considerazioni sul ruolo del disegno nell’opera
di Tadeusz Kantor e di Edward Gordon Craig

Lech Stangret

143

L’incontro tra Kantor e Beuys. La mostra Beuys | Kantor:
Remembering all’Israel Museum di Gerusalemme. 2012
Jaromir Jedliński

157

Oggetti che sfidano la modernità:
Tadeusz Kantor vs Marcel Duchamp
Carla Subrizi

175

Dall’azione alla zattera – uno scarno abbecedario
Paola Bianchi

187


“La classe morta” di Tadeusz Kantor:
appunti per una grammatica della commozione
Andrea Vecchia

193

Il teatro sonoro di Tadeusz Kantor
Valentina Valentini

205

Attorno alle questioni di partitura e drammaturgia sonora
nel teatro di Tadeusz Kantor
Walter Paradiso

223

L’immagine sonora nel teatro di Tadeusz Kantor
Daniele Vergni


231

«roma NoN era peggio della mia Wielopole»
KaNtor e l’italia
Kantor in cattedra. L’inquieto maestro delle «lezioni milanesi»
Renato Palazzi

239

La conoscenza dell’opera di Tadeusz Kantor in Italia
dalla fine degli anni ’50 al 1990
Silvia Parlagreco

251

Un feroce spazio delle emozioni:
Brunella Eruli e l’incontro con Tadeusz Kantor
Cristina Grazioli


267

Kantor e la sinistra italiana
Witold Zahorski

287

«io NoN recito WitKieWicz, io gioco coN WitKieWicz»
KaNtor, l’arte, il teatro, la letteratura polacca
Tadeusz Kantor – Jerzy Grotowski – Jerzy Gurawski
Zbigniew Osiński

303

Demonismo, purezza e maternità: caratteri e forme femminili
nell’opera di Wyspiański, Witkiewicz e Kantor
Maria Pia Verzillo

313


Pensando a Kantor
Moni Ovadia

323

NOTE

327

«UNA SORTA DI PREDECESSORE»:
KANTOR E BECKETT
Tommaso Gennaro e Luigi Marinelli*

Nella tragifarsa di Kantor, così come nelle tragifarse di Beckett – perch in definitiva, malgrado tutta la diversità della visione, come non
mettere a confronto questi due teatri della fine del nostro secolo – il
nascere è morire. Nella Classe morta si nasce su una poltrona da dentista rotta sic in realtà ginecologica TG,LM], in Fine di partita [sic!
TG, LM si muore in un secchio per i rifiuti. La nascita e la morte sono
degradate, ma in tutti e due i teatri sono un’in essibile, incessante
memoria1.


Cos Jan Kott nel 1990. In questa breve dichiarazione il critico polacco
ha emblematizzato fugacemente gli aspetti salienti dell’opera di Kantor e
Beckett (il tema della morte e il tema dell’inestricabile intreccio di comico
e tragico), intuendo nel loro nesso un profondo punto di contatto fra i due
autori.
orse sarebbero potute bastare queste ri essioni per rendere plausibile
il raffronto fra due artisti per tanti versi straordinariamente affini e quasi
in elettiva corrispondenza fra loro, mentre – paradossalmente – allo stato
attuale degli studi, non si trovano collegamenti effettivi n nelle biografie,
n – con pochissime eccezioni – nella letteratura critica che li riguarda2.
E ovviamente sarebbe bastata anche da sola l’annessione di Beckett in
un luogo centrale del vortice canonico disegnato da Kantor nel celebre
testo-disegno intitolato Cafè Europe (anch’esso datato 1990, l’anno della
sua morte). Ma esiste un intervento illuminante dello stesso Kantor, che
risale all’anno precedente (ma edito postumo soltanto nel 2005), e perlopi ignorato in quanto non pubblicato nei tre volumi degli scritti curati da
Krzysztof Ple niarowicz3. Si tratta di un’intervista assai poco conosciuta,
rilasciata giustappunto nel 1989 da Kantor al programma radiofonico ungherese “Studio” e pubblicata da Nina Kiraly sedici anni dopo (in una
fase in cui il tasso d’interesse per l’opera dell’autore della Classe morta

Politica dell’arte, politica della vita


era relativamente basso nel mondo), su una rivista ben poco frequentata
dai teatrologi, «Polska Sztuka Ludowa. Konteksty». un testo rivelatore,
una sorta di ars poetica di Kantor medesimo4, che, come già detto, per
ragioni cronologiche non poté entrare nella raccolta delle sue opere curata da Ple niarowicz: merita dunque una lunga citazione. Ripercorrendo
qui il suo percorso artistico e la creazione del “Teatro della Morte” con
la conseguente, definitiva rottura con quella che ironicamente chiamava
l’“ vanguardia ufficiale”, Kantor giungeva senza mezzi termini alla questione che c’interessa. La data – importante ribadirlo – il fatidico 19 9,
anno non solo del crollo del muro di Berlino, ma anche della morte di
Beckett:
Dopo tante tappe, giunse il momento in cui presi a dubitare della cosiddetta vanguardia. Tanto essa si era diffusa nel mondo – grazie
a quella che chiamai “la leva di massa dell’avanguardia” – che, per
quanto in passato fosse stata un fenomeno minoritario, ora d’improvviso era divenuta obbligatoria, se non proprio ufficiale. uello era il
periodo in cui da noi, in Polonia, l’avanguardia era una corrente sostenuta dal Ministero della Cultura. E fu allora che mi resi conto che
non si trattava pi affatto di avanguardia e che da quella comoda autostrada bisognava uscire, cercando una stradina laterale secondaria.
E quella stradina laterale fu per me il Teatro della Morte. L’anno, il
’75 – e La classe morta. […]
uando si comincia a parlare della morte, si universali. E forse
ancora una cosa: quando cominciai a pensare il Teatro della Morte,
il concetto di morte nella cultura teatrale europea era assolutamente

impopolare. Nel 1975 si era al culmine della cultura consumistica.
Era quest’ultima a determinare la gioia di vivere: cio il consumo di
tutti i beni industriali. Parlare allora di morte rappresentava un’indelicatezza. E si sa che sia dall’altra parte, quella del capitalismo,
come pure dalla parte del marxismo, non era lecito parlarne. Indipendentemente dal fatto che tanta gente moriva. Era quasi proibito.
Ed è per questo che io ritengo ancora che il Teatro della Morte doveva diventare universale. Ed era avanguardia, s , potente avanguardia. Chi aveva parlato della morte in precedenza? Beckett, soltanto
Beckett5.
112

«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett

queste stesse considerazioni, espresse da Kantor e ribadite da Jan
Kott, nello stesso torno d’anni, accostando nuovamente Kantor e Beckett,
era giunto in Italia uno spettatore assai acuto come Giovanni Raboni.
Scrivendo in mortem di Kantor nel dicembre 1990, il poeta italiano appuntò una nota di grande interesse in Devozioni perverse, «sorta di diario» «costituito soprattutto da articoli pubblicati dall’inizio del 19 alla
fine del 1991 su “Europeo” e “Corriere della Sera”»6:
8 dicembre [1990] L’anno scorso, di questi tempi, Beckett; adesso
Kantor. Dire che se ne vanno gli ultimi grandi poco se ne va la
grandezza del Novecento comincia – già cominciata – un’età culturale la cui funzione e la cui nobiltà non potranno consistere che nel
commemorarla, la grandezza, nell’“utilizzarne” il ricordo7.

L’individuazione e l’accostamento di Kantor e Beckett quali vertici terminali del
secolo sarà ribadita da Raboni giusto due anni dopo, recensendo gli spettacoli di Les aw e Wac aw Janicki. In quel caso il critico
avrebbe ripreso quell’intuizione in occasione della (a questo punto forse
non proprio casuale) rappresentazione di testi beckettiani da parte dei “gemelli di Kantor” (i quali, col tempo, misero in scena Ohio Impromptu,
Actes sans paroles I e II, Krapp’s Last Tape). In quella circostanza Raboni
avrebbe infatti scritto: «a una consanguineità fra Beckett e Kantor (nel
segno, forse, di una comune riferibilità a Kafka) ho sempre creduto»8.
Inoltre, in un articolo successivo, lo stesso Raboni si sarebbe riferito alla
fisicità stranita e simmetrica, la “quotidianità” astratta, il gusto delle
stilizzazioni espressionistiche e dei rallentamenti o delle frenesie da
cinema muto, che appartengono così tipicamente ai due attori e costituiscono il loro particolare modo di vivere l’eredità kantoriana fin
dai primi movimenti che i due compiono in scena, appaiono irresistibilmente e quasi fatalmente beckettiani, come se il loro incontro con
Beckett fosse stato davvero scritto nelle stelle9.

voler approfondire l’intuizione di Raboni, si potrebbe peraltro osservare come effettivamente esista in entrambi gli artisti una determinante
presenza dell’opera di Kafka, sempre occultata in Beckett10, e filtrata in
113

Politica dell’arte, politica della vita

Kantor attraverso la fondamentale, ma non meno velata mediazione di
Bruno Schulz. D’altronde Krzysztof Ple niarowicz ricordava come proprio Kafka e Schulz fossero fra le letture giovanili di Kantor all’ ccademia di Belle rti di Cracovia11. In entrambi i casi si tratterebbe dunque del
noto fenomeno di an iety o in en e descritta di Harold Bloom12. Kafka
presenziava nel novero delle letture beckettiane sin dai primi anni Trenta
Kantor, da parte sua, proprio nel momento dell’allontanamento da quella
che sarcasticamente chiamava “leva di massa dell’avanguardia” e nel riavvicinamento – per una sorta di “ritorno del rimosso” artistico – a quello
che chiam blokianamente il “baraccone” del simbolismo13, andava a rimettere la propria creazione sotto l’egida di autori quali Maeterlinck (autore peraltro vicino a Beckett), Wyspiański, Schulz e giustappunto Kafka:
Che fare con il GR N MISTERO dei piccoli drammi di Maeterlinck
oppure con gli incantesimi lanciati dal signor Wyspiański
col W WEL, la C P NN DI BRONOWICE, oppure col crescente
ORRORE delle soffitte di Kafka o infine con l’IMMONDE
IO di
Bruno Schulz 14

N possiamo evitare di rimarcare proprio qui quanto il motivo e la
“figura” dell’immondezzaio siano particolarmente cari all’immaginario
teatrale di Beckett (basti pensare ai bidoni di Fin de partie o alla montagna di «miscellaneous rubbish» in Breath), e quanto – per entrambi
gli artisti – esso abbia direttamente a che fare con la loro concezione
dello spazio teatrale (e in genere dello spazio artistico) laddove per Kantor questo espressione di quella «realtà del rango pi basso» (realno
na ni sze rangi) che – per lui, ma indubitabilmente anche per Beckett –
sta a fondamento dell’arte. Ne avessimo qui il dovuto tempo e modo,
sarebbe forse il caso di ampliare il discorso all’interesse artistico per la
varia «realtà del rango pi basso», condiviso, negli stessi anni, dal loro
quasi coetaneo e a nostro avviso non meno “consanguineo” Pier Paolo
Pasolini. Nel finale del cortometraggio Che cosa sono le nuvole? (1968),
ad esempio, la dimensione esistenziale dei protagonisti-burattini (Tot e
Ninetto Davoli) si colloca assai “kantorianamente” fra la discarica e il
cielo annuvolato, l’immondezzaio e la «straziante meravigliosa bellezza
del creato».
114

«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett

In un bel libro dedicato ai loci communes fra tre grandi artisti del Novecento polacco, quali Le mian, Schulz e Kantor, rifacendosi al pensiero
critico che vede nel personaggio del Chocho delle Nozze di Wyspiański
un antesignano dei manichini e di tutta la rappresentazione “deumanizzata” dell’uomo nell’arte contemporanea, Wojciech Owczarski avrebbe
scritto:
Nello stesso contesto dovranno comparire i nomi di artisti europei
occidentali, quali Kleist, Craig, Eliot e soprattutto Beckett, il quale
ultimo (quasi fossero bio-oggetti kantoriani) inser spesso nello scenario di un immondezzaio i suoi personaggi spogliati di tutto, reificati,
concreati nella materia, cosa che lo rende particolarmente prossimo
all’imagerie di Le mian (ai suoi “vecchiacci” – dziadygi, “gobbi” –
garb sy e i “dappochi” – znikomki), come a quella di Schulz (T uja,
Edzio, Dodo) e aggiungeremmo i nanerottoli semimostruosi del suo
Libro idolatrico, TG,LM] e, chiaramente, di Kantor15.

Kantor avrebbe espresso concetti non dissimili con grande chiarezza
nel fondamentale saggio l l ogo teatrale (1980), richiamandosi al suo
manifesto mballaggi del 19 :
Ecco i luoghi in cui ho collocato il mio teatro, oppure di cui
fantasticavo.
Non posso definire con esattezza che cosa essi avessero
di tanto particolare da indurmi a sceglierli.
La loro, per cos dire, “elementare” quotidianità
ordinarietà
il loro abbandono
la loro nostalgia, malinconia, tristezza
fuggevolezza poesia
forse miserabilità, “povertà”
Di certo in queste mie scelte avevano molto peso la predisposizione
e la tensione che fin dai miei iniz avevo manifestato verso il concetto di “RE LT DEL R NGO PI B SSO”, in cui, come la definivo nel mio Manifesto mballaggi, l’oggetto rivela la sua essenza
proprio al limite della sua distruzione, fra l’IMMONDE
IO e
l’ETERNIT 16.
115

Politica dell’arte, politica della vita

Non c’è modo qui di approfondire temi di tanta portata, ma forse si
dovrà almeno sottolineare come l’idea kantoriana di «realtà del rango pi
basso» riguardi direttamente la sua visione dell’essere umano in quanto
oggetto e non pi soggetto della Storia (si pensi qui alla centralità del
manichino, nonch in seguito alla sua stessa nozione di bio-oggetto, introdotta nel saggio l l ogo teatrale). fronte di un ormai ineluttabile «disprezzo dell’artista verso la storia universale’ e ufficiale» (cos Kantor
in Salvare dall’oblio)17, e nell’attesa di un impossibile ritorno di Odisseo
o dell’arrivo di Godot, la condizione dell’uomo perde ogni connotazione
eroica per ridursi alla sua più semplice, mera e spesso non poco ridicola
essenza materica (a proposito del tema dell’attesa opportuno qui ricordare l’osservazione di nna Krajewska sulla possibile comune ascendenza
maeterlinckiana in Beckett e in Kantor, con particolare riferimento alla
orte di intagiles)18. In entrambi gli artisti un simile processo di riduzione e svilimento (del senso) della vita umana, non solo non implica un
qualsivoglia giudizio di valore o pessimismo, bens si qualifica come la
sua pi veridica rappresentazione dopo le atrocità e i deliri della Seconda
Guerra Mondiale e della Shoah, in quanto unica possibile “celebrazione”
di ci che resta dell’umano. Per riferirci a rancesco Orlando, come se
l’individuo fosse diventato l’«oggetto desueto» dell’umanità e, per sineddoche, il corpo – l’«oggetto desueto» dell’umano19.
uello che a questo punto unisce l’artista polacco con Beckett, lberto
Giacometti, Primo Levi, rancis Bacon e altri, ci che nella succitata intervista del 19 9, lo stesso Kantor riconobbe a proposito del suo immettersi
su un sentiero già battuto dall’autore di Godot (vale a dire il percorso che
dal “Teatro ero” lo avrebbe portato al “Teatro della Morte”) e che risulta
come una dichiarazione di poetica nella quale Beckett, senza mezzi termini, viene eccezionalmente riconosciuto come «una sorta di predecessore»:
Nel 19 3 inizia una nuova tappa, che chiamai “Teatro ero”. Si trattava di un’altra pièce di Witkiewicz, Il pazzo e la monaca. Il Teatro
ero risult dall’idea e dalle mie ri essioni su quali fossero i mezzi di
espressione artistica da usare per portare ai minimi termini, sminuire,
ridurre sotto zero tutte quelle manifestazioni della condizione umana – tragicità, eroismo, passioni, guerra, lotta, appetiti – che di solito
erano elevate e riprodotte al di sopra dello zero.
116

«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett
n seg ito mi resi onto e a e o na sorta di rede essore o erosia che anche quello che aveva fatto Beckett si collocava al di sotto
dello zero della condizione umana, ma questa cosa non m’intimorì
affatto20.

I processi di “despoliazione”, “degradazione”, “riduzione ai minimi
termini” e alla fin fine “deumanizzazione” dei personaggi – quello che,
sulla scorta di ndrzej alkiewicz, Jan Kott definiva l’esito di «una
cipolla che viene sbucciata. Si toglie il primo velo, poi il secondo, poi
man mano tutti gli altri involucri. Dove finisce la cipolla, e cosa c’
nel mezzo »21 (e che Beckett, in un contesto diversissimo, avrebbe definito analogamente la ricerca dell’«ideal core of the onion») 22 – hanno
dunque a che fare con il problema dell’identità umana, della quale, al
centro dell’espressione artistica di Beckett e Kantor (ma con loro di
tutta una schiera di artisti del secondo Novecento), non pu rimanere
che un nucleo, disperatamente insopprimibile. Ne risulta cos l’umanissimo, quanto forse vano bisogno di preservare – nonostante tutto –
almeno quel nucleo, l’«inannullabile minimo» (l’unnullable least) di
Beckett23 e la
Piccola,
Povera,
Indifesa,
ma stupenda Storia
della vita
umana
individuale

ovvero
i miseri brandelli
della […] vita individuale
divenuti
l’objet prêt

che il «RITU LE e S CRI ICIO» scenico di Kantor, intendeva
117

Politica dell’arte, politica della vita

salvare dalla distruzione e dall’oblio.
Salvare da tutte
le “potenze” del mondo.
Persino nella consapevolezza
del fallimento.
(T.. Kantor, Pisma, vol III, rispettivamente pp. 12 , 130, 12 )

«Praticamente io non sono mai stato un astrattista», dirà Kantor in una
conversazione con Por bski: «la figura umana era per me straordinariamente importante. […]
esta g ra mana stata om romessa, noi
non avremmo pi potuto crearla secondo il canone umanistico, antico,
quello della bellezza del corpo
il motivo era l’occupazione e la deumanizzazione nazista»24. uesta dichiarazione si rispecchia con sconcertante conformità in alcune parole scritte da Beckett subito dopo la guerra
a proposito di Saint-L , cittadina della Normandia occupata dai nazisti
il 1 giugno 19 0, bombardata e rasa al suolo dagli lleati la notte del
giugno 194425. Su «la capitale des ruines» (come la chiamavano gli stessi
francesi), nel 19 Beckett scrisse un reportage per Radio ireann dal titolo, appunto, The Capital of the Ruins, dal quale s’intuisce come gli eventi
bellici – similmente a quanto espresso da Kantor – abbiano scatenato in lui
il ripensamento nitido e disincantato della condizione umana post-bellica:
Saint-L was bombed out of e istence in one night
. “Provisional”
is not the term it was, in this universe become provisonial. It will continue to discharge its function long after the Irish are gone and their
name forgotten. But I think that to the end of its hospital days it will
be called the Irish ospital, and after that the huts, when they have
been turned into dwellings, the Irish huts. I mention the possibility,
in the hope that it will give general satisfaction. nd having done so I
may perhaps venture to mention another, more remote but perhaps of
greater import in certain quarters, I mean the possibility that some of
those who were in Saint-L will come home realising that they got at
least as good as they gave, that they got indeed what they could hardly
give, a vision and sense of a time-honored conception of humanity in
r ins and er a s e en an inkling o t e terms in w i o r ondition is to be t o g t again26.
118

«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett

Dalla conclusione di questo testo possono desumersi buona parte delle
ragioni che nell’estate del 19 5 avevano spinto lo scrittore irlandese alla
sua celebre «rivelazione», svolta risolutiva che lo port a mutare radicalmente stile e lingua27: si tratta di una «scelta di campo, emotiva ed etica,
di un autore che ha deciso di ricominciare a prendere la parola dalla “capitale delle rovine”, anzi di “interiorizzare” queste rovine e farne la propria
lingua»28. Direttamente o indirettamente, i bio-oggetti di Kantor e alcuni
oggetti fetticcio del teatro di Beckett hanno a che fare con tutto questo,
cio con l’azzeramento e la reificazione del corpo umano29.
Da questo punto di vista, anche la concezione kantoriana dei cosiddetti
bio-oggetti (intesi non come «accessori di cui si servono gli attori, non
“decorazioni” sceniche in cui si “recita” ma formanti con gli attori
un tutto inscindibile»)30, potrebbe essere confrontata con alcuni elementi
che nelle opere di Beckett costituiscono una figura unitaria con il corpo
dell’attore. In Kantor: la bara, la vasca da bagno, lo zaino, l’armadio, la
«macchina funeraria», il carretto dell’immondizia, la «macchina di annientamento», i banchi scolastici. In Beckett: l’armadio di Malone, le giare
dell’Innommanable e di Play, i bidoni dell’immondizia di Nagg e Nell, il
terreno nel quale affonda Winnie, il sacco di Comment c’est.
Per entrambi vale la descrizione kantoriana secondo cui «gli attori da
quegli oggetti erano condizionati, i loro ruoli e le loro attività si dipartivano da ess i » (si pensi anche all’imbracatura di Billie Whitelaw per impersonare Mouth di Not I come pure, nella rappresentazione di Nel piccolo
maniero del Teatro Informale del 1961, agli «attori, appesi a mostruose
grucce come vestiti, che ciondolando porta va no avanti i loro indecifrabili dialoghi. Oppure, mescolati con fagotti e sacchi, si assimila va no a
questa infima categoria di oggetti, perdendo la propria dignità individuale, ricadendo al fondo limite del raziocinio»)31.
Andando alla ricerca di ulteriori elementi comuni fra le poetiche dei
due artisti, si dovrà perlomeno ri ettere sulle modalità di ideazione e
composizione della struttura dell’opera teatrale: i momenti essenziali in
tal senso per la costruzione di un organismo scenico perfettamente funzionante, per Beckett sono anzitutto l’individuazione di un’immagine
(spesso mutuata dal patrimonio iconografico memoriale immagazzinato
negli anni – con i pittori tedeschi e fiamminghi in testa) in seguito la
necessaria delimitazione dello spazio nel quale “inscenare” l’azione e, in119

Politica dell’arte, politica della vita

fine, la messa in moto o dinamicizzazione di quella stessa immagine. l
termine poi di questi tre momenti, in molti casi la ripetizione di quanto fin
l rappresentato, che costituisce di fatto quel «sistema a replica inclusa» di
cui ha parlato opportunamente Frasca32.
Per quanto riguarda il metodo teatrale di Kantor, pittore e scenografo ancor prima che regista e autore teatrale, si potrebbero quasi ripetere
senza variazione le stesse considerazioni in entrambi l’imagery teatrale
nasce molto spesso da una suggestione iconografica (Noel Witts, partendo
da questo presupposto, arriva addirittura a chiedersi se i due non si fossero
mai incontrati, dacch entrambi costruiscono in modo simile una serie di
performance essenzialmente basate «su singole immagini visive»)33. Basti
pensare all’importanza della fotografia e del tableau vivant nell’estetica,
poetica e modalità compositive kantoriane, nonch a quel principio della
ripetizione al quale lo stesso Kantor avrebbe dedicato un saggio fondamentale nel 19 9: «la ripetizione
il nocciolo dell’arte»34 e ancora:
«la ripetizione sottrae alla realtà la sua funzione vitale, il suo significato
vitale, la forza dell’attività pratica di vita. In seguito a tale operazione
la realtà diviene impotente e infruttuosa ai fini della vita pratica, ma in tal
modo acquista una forza colossale nel pensiero, nell’immaginazione, cio
nella sfera che decide della dinamica della vita umana e del suo S ILUPPO»35. Giustamente dunque nna Krajewska sostiene che «la ripetizione
come genere di esperienza del mondo apparenta Kantor con Beckett»36;
cos pure ndrzej Matynia, parlando della misurazione del tempo nel teatro di entrambi gli autori, accosta l’uso ripetitivo del nastro magnetofonico
in Krapp’s last tape di Beckett e il metodo della «ripetizione e ritorni della stessa sequenza di cui Tadeusz Kantor fece uso fin dagli inizi del Cricot
2»37. E, ancora, Georges Banu assimila all’opera di Beckett e Giacometti
le variazioni sullo stesso tema che costituiscono il nucleo creativo degli
ultimi spettacoli di Kantor, apparentandoli in un’unica “famiglia” che definisce la «famiglia dei prigionieri del frammento»38.
Difficile non pensare a questo punto a due luoghi cruciali nei capolavori di Kantor e Beckett, laddove, in entrambe le situazioni, e non a caso
nei finali, nella Classe morta «tutti ripetono i gesti interrotti, i discorsi
che non concluderanno mai, in essi per sempre imprigionati»39; mentre in
En attendant Godot tutto si prepara a essere ripetuto, un nuovo giorno, un
nuovo atto, una nuova attesa, e il finale del secondo atto replica specular120

«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett

mente quello del primo («Estragon – lors, on y va | ladimir – llonsy. | Ils ne bougent pas»)40.
questo punto occorrerebbe chiedersi quali siano – assieme a questo
fondamentale principio costruttore – altri temi, figure, accessori e luoghi
comuni nell’immaginario dei due artisti – alla ricerca di una sorta di “atmosfera condivisa” da due ben diverse spiritualità poetiche e biografie
artistiche, caratterizzate per , si visto, da un’intima consanguineità.
Cercando di riepilogare ciò che in questa sede non è stato neanche possibile riassumere, occorrerebbe forse portare alcuni esempi concreti di
quei temi, accessori e immagini comuni ai due autori. uesti infatti costituiscono tanto un immaginario condiviso, quanto il bacino figurale e
figurativo dal quale attingono entrambi per la composizione vuoi di scene
e situazioni delle loro singole opere, vuoi soprattutto per l’esplicitazione
della loro ideologia poetica tout court. Allo stato attuale della presente ricerca possibile individuare quello che non potrà essere pi di un
semplice elenco, suddividendolo in tre sottoinsiemi caratterizzanti rispettivamente: il piano tematico, quello figurativo e quello pi generalmente
speculativo ed estetico-poetico.
ra i temi comuni ricorrenti, dovremo quindi sottolineare innanzitutto
la semiosfera della vecchiaia con i suoi corollari fisici ed esistenziali: la
memoria intesa come meccanismo inconscio di doloroso e impossibile
recupero del tempo perduto la sterilità come condizione inevitabile della decadenza anche sessuale della vitalità del corpo umano la pluralità
dell’io morente in quanto “ricettacolo”, nella sua visione panoramica, delle varie età, esperienze e maschere della condizione umana lo stato soggettivo e oggettivo di avvicinamento alla morte, «stazione penultima»41
nell’attesa del progressivo approssimarsi a uno zero che Beckett chiamava
«inannullabile minimo» e Kantor, nel Manifesto del Teatro Zero, definiva
«forme di nientificazione», tese a «livellare, annientare fenomeni, avvenimenti, accidenti,
togliergli la pesantezza della quotidianità,
permettere di trasformarli in una materia scenica libera di assumere
qualsiasi forma»42.
caratterizzare invece la rappresentazione della figura umana, potremmo parlare, in entrambi i casi, di bio-oggetti comuni, quali la bombetta, il sacco zaino, l’ombrello e la bicicletta (per gli ultimi due dei quali,
anche Mitchell intu , già nel 19 , un possibile legame fra i due autori)43.
121

Politica dell’arte, politica della vita

Tutto ci nel contesto di una generale clownerie della rappresentazione
dell’umano, per cui l’elemento circense del doppio comico e del personaggio da slapstick comedy risulta particolarmente caro all’immaginario figurativo e poetico di entrambi. Sempre a proposito della rappresentazione
dell’umano, risulta alquanto evidente il parallelismo che si instaura fra le
visioni dell’umanità povera, degradata, fallimentare e fallita, della quale
la figura del clochard l’emblema pi caratterizzante.
In Kantor il clochard il rappresentante della «realtà del rango pi basso», e quindi dello spaesamento e straniamento che l’arte introduce nella
realtà. Ne la riprova una testimonianza dello stesso artista polacco che
ricorda di come, sul finire degli anni Sessanta, fece partecipare un vero
clochard a uno dei suoi happening: «Nel 19 , nel mio happening intitolato ommage
aria Jarema, nel solito assembramento di spettatori da
vernissage, introdussi un clochard, ubriacone, coi vestiti infangati, sudicio,
intriso di sudore e non rasato, che si guadagnava da vivere trasportando
pacchi per le vie e le piazze della città, mentre qui, tutto tranquillo e per
l’intera durata dell’evento, se ne stette a segare assi di legno »44. Inoltre
la fascinazione di Kantor per la «realtà del rango pi basso» dei clochard
emerge dalla partitura di Wielopole Wielopole e nel saggio l l ogo teatrale, a proposito della collocazione spaziale dello spettacolo Gallinella
Acquatica (Edimburgo, 19 ), di poco successivo all’happening Hommage a aria Jarema e appartenente alla fase del cosidetto “Teatro Informale”.
OSPI IO DEI PO ERI
quasi un immondezzaio con dei ruderi di letti, come dei relitti delle primitive officine del lavoro coatto, un po’ asilo, un po’ prigione,
sfasciume, pareti che crollano in questo interno si svolgevano gli
eventi di Gallinella acquatica di Witkiewicz. Una truppa di CLOC RD, di mbulanti, Eterni Erranti, agabondi, sosteneva i ruoli
dei decadenti Conti, Cardinali, Banchieri, Smancerosi rtisti, Pederasti, lacch , ladies inglesi, libertini e debosciati 45

Beckett, da par suo, tanto nella prosa quanto nel teatro, identifica nel
clochard il protagonista di quella «humanity in ruins» rappresentativa
della realtà postbellica, cosicch nelle sue opere (da Molloy, a n, Godot,
122

«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett

ragment de t tre, ecc.) vagabondi e derelitti sono elevati al rango di
protagonisti non solo della finzione scenica, bens della vita.
Per Kantor in particolare, in questa stessa problematica, rientra ovviamente anche la presenza ricorrente dei manichini sulla scena, che nel tempo assumono vari significati e connotazioni estetiche e strettamente teatrali, dalla funzione di «organo supplementare dell’attore»46 fino a diventare «un modello attraverso il quale passa il sentimento vivo della morte
e della condizione dei morti. Un modello per l’attore vivo»47. Per Beckett,
invece, fra i due elementi della coppia scenica si instaura un rapporto simbiotico, tale da costituire quello che lui stesso definiva «pseudo-couple»48.
Cos pure si potrebbe dire, in generale, per il tema del fallimento, che
ci sembra altrettanto centrale nella poetica dei due artisti: si pensi al già
citato monito di Salvare dall’oblio: «Persino nella consapevolezza del
fallimento», o al concetto di «non eseguibilità» o «eseguibilità non riuscita» espresso da Kantor nei Testi autonomi di Wielopole Wielopole49. Non
dissimilmente in Beckett il fallimento rappresenta con il passare del tempo il risultato di un inappagato work in regress, ovvero la ricerca di una
perenne ulteriorità alla quale arrivare sottraendo, e quindi l’esito naturale
della sua ricerca artistica: « ll of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever
failed. No matter. Try again. ail again. ail better»50.
Da ultimo, quale elemento essenziale per la creazione pittorica e teatrale, lo spazio, che condivide in entrambi i casi non solo il fondamentale
principio di costruzione a partire da uno spunto visivo – immagine memoriale, quadro o fotografia che sia – ma privilegia alcuni elementi che
in entrambi i casi assumono un potente valore simbolico e pertengono
alla dimensione pi intima e familiare dello spazio umano: quello della
stanza51. ui assume grande rilievo la presenza costitutiva della finestra e
della porta, proiezioni al tempo steso tangibili e astratte del rapporto con
l’esterno e l’esteriorità, e dell’armadio quale metafora del deposito memoriale al quale attingere nonch ingresso nascondiglio della dimensione pi
intima della memoria individuale. In tal modo, la stanza – la kantoriana
«stanza dell’infanzia»52, la «povera stanza dell’immaginazione» – diventa
lo spazio quintessenziale della creazione teatrale di entrambi, luogo della
memoria morente che a intermittenze rivive sulla scena di un’infinita attesa, sineddoche di un luogo dell’interiorità mentale che per Beckett arriva
a coincidere di fatto con la scatola cranica, «that penny farthing hell you
123

Politica dell’arte, politica della vita

call your mind»53 (del personaggio quanto dell’autore e quindi del lettore),
e che similmente per Kantor «non pu essere una stanza vera
perch
deve essere la stanza della MEMORI , del RICORDO, che rimettiamo
sempre a posto e continuamente muore. Che “pulsa”. Perch tale la
struttura reale del ricordo »54.
Stante dunque la possibile costituzione fra i due autori di quello che
Corrado Bologna ha definito un «paradigma di compatibilità»55 sul piano storico-logico e documentario (e, aggiungeremmo, finanche affettivo),
che sembrerebbe – se non dimostrato – almeno altamente dimostrabile
in base alle considerazioni e convergenze qui indicate, si potrebbe provvisoriamente concludere sostenendo che il dialogo a distanza, fors’anche
ravvicinata, fra Kantor e Beckett sia assai pi significativo e ricco di implicazioni di quanto non si sia sospettato e indagato fino ad oggi.
Pur col beneficio di inventario che deriva dalla ricostruzione e studio
approfondito dei rispettivi archivi (ancora molto avvenire) – pensiamo in
particolare all’epistolario di entrambi dagli anni ’ 0 in poi e alle possibili
letture condivise – si potrebbe perfino azzardare l’ipotesi che il parallelismo già da alcuni suggerito fin dalla metà degli anni ’ 0, sia ben pi che
frutto di fortuita analogia o comunanza di intenti e visioni artistiche, ma
derivi da un contatto diretto (dichiarato o meno, unidirezionale o biunivoco), tale da giustificare la profonda sintonia dei due universi poetici.

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Konstr ktywizm w teatrze [Il costruttivismo a teatro], o it.
T. Kantor, isma [Scritti], t. 2, o cit., p. 03.
ll’inizio degli anni Ottanta, Kantor ha ordinato la traduzione di un lungo articolo
monografico sul Revisore di Mejerhol’d di Béatrice Picon-Vallin. L’autrice, utilizzando
ricche fonti russe, ha ricostruito lo spettacolo, descrivendo nel dettaglio il lavoro compiuto su di esso e la ricezione. Grazie al testo di Picon-Vallin Kantor ha potuto conoscere l’analisi dettagliata della partitura musicale nel Revisore, definita da Mejerhol’d
«realismo musicale». Vedi: B. Picon-Vallin, e e izor de ogol-Meyerhold, in: Les
voies de la création théâtrale 7, Mises en s ne ann es et , raccolte e presentate
da D. Bablet, ditions du Centre national de la recherche scientifique, Paris, 19 9.
T. Kantor, isma [Scritti], t. 3, op. cit., p. 335.
Ibidem, t. 1. p. 168.
Ibidem, p. 183.
Ibidem, p. 187.
Konstr ktywizm w teatrze [Il costruttivismo a teatro], o it.
A. Turowski, wangardowe marginesy [Margini d’avanguardia], Instytut Kultury,
Warszawa 1998, p. 12.
Konstr ktywizm w teatrze [Il costruttivismo a teatro], o cit.
Ibidem.

Tommaso Gennaro e Luigi Marinelli, «Una sorta di predecessore»:
Kantor e e kett
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Il presente contributo è stato scritto in stretta collaborazione, ma sono da attribuire
in particolare a Tommaso Gennaro le prime 9 pagine (e relative note fino alla n. 31)
e a Luigi Marinelli le ultime pagine (e relative note, da n. 32 a 54). I due autori si
ringraziano a vicenda per la proficua occasione di scambio intellettuale.
J. Kott, Kaddis
agine s ade sz Kantor, P. Marchesani, a cura di, Scheiwiller,
Milano 2001, pp. 32-33.
Sembrerebbe che l’unico intervento esplicitamente dedicato al tema per noi qui centrale sia una conferenza di Daniel Watt, bi i il ales bi i il elis e kett
Kantor and t e o erty o eing, che però non è mai stata pubblicata.
Cfr. T. Kantor, isma, red K. Ple niarowicz, 3 voll., Ossolineum-Cricoteca, Wroc awKrak w 200 -2005.
N. Kiraly, Ars poetica Tadeusza Kantora, in Konteksty, I (2005), pp. - 3.
T. Kantor,
wi wten zas o mier i by o nietaktem zt ka est bliska mier i
[ arlare allora della morte era n indeli atezza arte
rossima alla morte], in
«Polska Sztuka Ludowa. Konteksty», LI n. 1, 2 (2005), pp. - , qui a p.
(traduzione di LM, corsivo nostro).
G. Raboni, Devozioni perverse, in Id., L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di R. ucco e uno scritto di . anzotto, Mondadori, Milano 200 , pp. 5937, p. 846.

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Politica dell’arte, politica della vita
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Ivi, p. 910, e si vedano le pp. 910-911 per il ricordo su Kantor alle pp. 90- 91, datate
22 dicembre 1989, le considerazioni in mortem di Beckett.
Id., gemelli nati da e kett, in «Corriere della Sera», 29 gennaio 1992, p. 25. Il nome
di Kafka è spesso citato da Raboni accanto a quello di Beckett: cfr. Id., oesia degli
anni Sessanta, in Id., L’opera poetica cit., pp. 299, 30 -9 ma anche Id., Bipolarità
di atta 1990 , in a oesia e si a rona a e storia del o e ento oeti o
italiano
, . Cortellessa, a cura di, Garzanti, Milano 2005, pp. 2 9-2 ,
articolo inaugurato nel nome di «Beckett, con Kafka sullo sfondo» (p. 2 0) e sigillato
facendo «i nomi di alcuni dei più severi e radicali testimoni “fantastici” del nostro
tempo, da Kafka a Beckett» (p. 287). L’amore di Raboni per Kantor è d’altronde dimostrato dai suoi numerosi articoli e dalle sue introduzioni a volumi kantoriani. A
quadrare il triangolo, fra Kantor, Beckett e Raboni occorrerebbe poi inscrivere la
compagna di quest’ultimo, Patrizia Valduga, la quale tradusse sia Beckett che Kantor,
e almeno indirettamente avrà potuto mediare la visione raboniana di entrambi gli
autori, l’irlandese e il polacco (nella fattispecie, Valduga tradusse i Corsi di Avignone
e l’ultimo testo teatrale in vita di Kantor, Ô Douce Nuit: T. Kantor, tille a t
corsi di Avignone, trad. it. P. Valduga, Ubulibri, Milano 1991; e di Beckett invece En
attendant odot).
G. Raboni, s ettando Kantor s bito e kett, «Corriere della Sera», 12 novembre
1992, p. 32.
«Je m’y suis senti chez moi, trop» avrebbe detto di Kafka, schernendosi, Beckett ad
Hans Neumann in una lettera del 17 febbraio 1954 ( e etters o am el e kett
, edited by G. Craig, M.D. ehsenfeld, D. Gunn and L.M. Overbeck,
Cambridge University Press, Cambridge 2011, p. 2).
K. Ple niarowicz, Kantor rtysta koń a wiek , Wydawnictwo Dolno l skie,
Wroc aw 199 , p. .
Per quanto riguarda Kantor si veda W. Owczarski, ie s a ws lne mie s a w asne
O wyobra ni e miana
lza i Kantora, s owo obraz terytoria, Gdańsk 200 ,
pp. 311-324; L. Marinelli, Kantor w ieni
lza, in
amka zwier iad a
r no
lz w
ro zni
rodzin i ro zni
mier i, red M. Kitowska- ysiak,
W. Panas, TNKUL, Lublin 2003, pp. 11- 29 Id., Kantor e l’ombra di Schulz, in «La
figura nel tappeto» (inverno 200 ), pp. 19-3 a proposito di Beckett cfr. G. rasca, Lo
s o olatoio e kett on ante e antor, Edizioni d’if, Napoli 201 , n. 1 pp. 33 338 (si tratta ovviamente di Georg Cantor, il matematico tedesco).
Si noti che subito prima della guerra, assieme alla sua fidanzata di allora, Wanda
Baczyńska, Kantor aveva tradotto dal russo in polacco il testo del alagan ik (Il baraccone dei saltimbanchi) di leksandr Blok (cfr. K. Ple niarowicz, Kantor rysta
koń a wiek cit., p. 36). Il ritorno in età matura, nell’ultimo decennio di vita e di
attività creativa, sia a quel testo che al Maeterlinck de La morte di Tintagiles (messo in scena al Teatro delle Marionette del Bratniak dell’Accademia di Belle Arti di
Cracovia, dove studiava, nel 193 ) si configurerebbe dunque come la “chiusura di
un cerchio” e il ritorno di un rimosso biografico-artistico di grande rilevanza per la
comprensione dell’opera totale di Kantor. Come già notava R. Palazzi, La materia e

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Note

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l’anima, Titivillus, San Miniato 2010, pp. 212-213, si dovrà ricordare anche a questo
proposito il bizzarro trattato La mort (Paris, Charpentier 1925) dello stesso Maurice
Maeterlinck.
T. Kantor, Tra la santa astrazione e lo scomunicato simbolismo [1938], in Id., isma,
vol. I, etamor ozy eksty o lata
, K. Ple niarowicz, a cura di, Ossolineum,
Weoc aw 2005, p. (trad. it. LM). Lo stesso Owczarski d’altronde si spingeva a ricercare
un parallelo diretto Beckett-Schulz, giungendo ad affermare che nella sua riduzione dei
propri personaggi ai minimi termini, Beckett sembrasse quasi «assolutamente memore» dei postulati del Trattato dei manichini di Schulz (p. 22). Beckett, semmai, pensava
presumibilmente al Teatro delle marionette di Kleist (cfr. J. Knowlson and J. Pilling,
res oes o t e k ll
e ater rose and rama o am el e kett, Grove Press, New
ork 19 0, pp. 2 5-2 5), che, per Owczarski, Kantor non tiene presente (W. Owczarski,
ie s a ws lne mie s a w asne cit., p. 43 e, su Beckett, ivi, pp. 10 e 22-25).
Ivi, p. 10.
T. Kantor, Il luogo teatrale, in Id., ielo ole ielo ole, trad. it. L. Marinelli,
Ubulibri, Milano 1981, p. 166 (traduzione qui lievemente rivista, LM).
«Pogarda (moja) dla istorii “powszechnej” i oficjalnej» (T. Kantor, O ali rzed
zapomnieniem, in Id., isma cit., III, pp. 125-130, qui a p. 12 , traduzione LM).
«L’esperienza dell’attesa», secondo Anna Krajewska, «non l’ha inventata Beckett, ma
l’autore della Morte di Tintagiles, la cui opera Kantor realizzò due volte, nel 1938 per
ritornarci nel 1987 chiamando lo spettacolo La macchina dell’amore e della morte»
(A. Krajewska, ramat i teatr abs rd w ols e, Wyd. Nauk. U M, Posnań 199 ,
p. 219, traduzione LM).
Il riferimento ovviamente a . Orlando, li oggetti des eti nelle immagini della letterat ra o ine reli ie rarit roba ia l og i inabitati e tesori nas osti, nuova
edizione riveduta e ampliata L. Pellegrini, a cura di, Einaudi, Torino 2015.
T. Kantor,
wi wten zas o mier i by o nietaktem cit., p. 85 (trad. it. LM, corsivo
nostro).
Cfr. I. Kott, e ear o ero Finale di partita, in Id., akes eare nostro ontemporaneo, prefazione di M. Praz, trad. it. V. Petrelli, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 92128, p. 116, che cita A. Falkiewicz, ks eryment teatralny lat i dziesi ty (3), in
«Dialog», 9 (1959), pp. 105-11 .
S. Beckett, ro st [1931], in Id., ro st and ree ialog es, Calder, London 1965,
p. 29 si veda anche W. Owczarski, ie s a ws lne mie s a w asne cit.: «i procedimenti riduzionistici di Beckett e di una notevole schiera di artisti novecenteschi – fra
cui i polacchi Le mian, Schulz e Kantor – dimostrano piuttosto che a nessuna particella elementare [dell’umano] si possa arrivare. (E questa non è di sicuro la “mancanza di comunicazione”, giacché sia i drammi di Beckett che le opere di molti altri
scrittori sensibili allo spirito del tempo, descrivono l’esperienza della mancanza di
comprensione, della monadicità, della chiusura in un mondo solipsistico nel quale la
comunicazione non solo è impossibile ma addirittura indesiderata.) Gli atti di mutilazione servono alla ricerca di ciò che non si può ritrovare. Il mistero dell’identità
dell’uomo sfugge alle sue possibilità conoscitive» (pp. 24-25).

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S. Beckett, orstward o [1983], in Id., om any ll een ll aid orstward
o tirrings till, edited by D. an ulle, aber and aber, London 2009, pp. 9103, p. 95.
Citato da K. Ple niarowicz, Kantor cit., p. 49 (trad. it. LM). Renato Palazzi a questo
proposito sottolinea negli happening e nel teatro di Kantor «l’infinita serie di agghiaccianti meccanismi a mezza via tra strumenti ospedalieri, macchine di tortura e
mostruosi attrezzi quotidiani: tavoli anatomici che diventano ghigliottine, barelle che
allungano a dismisura i corpi stesi su di esse, spropositati tritacarne» (R. Palazzi, La
materia e l’anima cit., p. 215, corsivo nostro).
In questo paese lo scrittore irlandese si recò come volontario della Croce Rossa per
lavorare, tra l’agosto e l’ottobre del 1945, quale interprete, magazziniere e autista
d’ambulanza (si tratta per Beckett dell’estremo vertice di una guerra nella quale egli
aveva già preso parte perdendo il suo amico e compagno della Resistenza francese
Alfred Péron in una retata nazista).
S. Beckett, The Capital of the Ruins, in Id., e om lete ort rose
,
edited and with an introduction and notes by S.E. Gontarski, Grove Press, New York
1995, pp. 275-278, cit. a pp. 277-278 (corsivi nostri).
Per cui si veda D. Gribben, e kett s Ot er e elation
e a ital o t e ins, in
«Irish University Review»,
III, 2 (200 ), pp. 2 3-2 3.
G. Frasca, Introduzione a S. Beckett, Le poesie, G. Frasca, a cura di, Einaudi, Torino
2002, pp. -L , qui a p.
I .
La guerra cioè si caratterizza come una scoperta che non può non passare per la
trasformazione e la menomazione, lo smembramento dei corpi, la loro riduzione ai
minimi termini, «a ogni costo», «al prezzo di dolore, sofferenza, disperazione e
poi di vergogna, umiliazione derisione» (T. Kantor, O ali rzed za omnieniem,
in isma cit., III, p. 128 e p. 129, trad. it. LM). E si noti già in Le mian, morto nel 193 ,
ben prima degli orrori più atroci della guerra, la poesia i nia [La visciola] racconta
di una bocca che rimane senza persona, e giustamente dzis aw apiński scorge nel
«processo […] di alienazione degli organi del nostro corpo, come se la coscienza si rifugiasse nei nostri occhi, mani e labbra, ultimo bastione dell’esistenza» ( . apiński,
eta zyka e miana, in t dia o e mianie, red M. G owiński e J. S awiński, Piw,
Warszawa 1971, p. 46); proprio come sarà nel Beckett di Not I (1972).
T. Kantor, Il luogo teatrale, in Id., ielo ole ielo ole, p. 177.
Ivi, pp. 178-179.
G. Frasca, Lo spopolatoio cit., pp. 88 ss.
N. Witts, Tadeusz Kantor, Routledge, London and New ork 2010, p. 3 .
T. Kantor, L’illusione e la ripetizione [1979], in T. Kantor, Testi autonomi, in Id.,
ielo ole ielo ole cit., p. 145.
Ivi, p. 146.
Anna Krajewska, ramat i teatr abs rd w ols e, NU M, Poznań 199 , p. 222
(trad. it. LM).
A. Matynia, a w a iwsza miara zas , in ommage
ade sz Kantor, red K.
Ple niarowicz, Ksi garnia kademicka, Krak w 1999, p. 92 (trad. it. LM).

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G. Banu, z owiek sto y na bo z i ego antomy, in ommage ade sz Kantor
cit., p. 199 (trad. it. LM).
T. Kantor, La classe morta, p. 210. Secondo Marek K dzierski, Konstanty Puzyna ha
riconosciuto «in Tadeusz Kantor’s Dead Class the same effort “to expose the breach”,
the gap of memory which also animates Beckett’s world: “the old cronies, evoking
their past around the time Gavrilo Princip shot the Archduke Ferdinand, end up not
in a nostalgic mood but in showing us the gap”. And this represents the “deepest and
most originally implemented Beckettian technique to be seen outside the stagings
of Beckett’s own texts”. According to the Polish critic, the biggest surprise in store
for us in Dead Class is that “it o ld be almost entirely deri ed rom e kett s work
although the word Beckett is not uttered a single time”» (M. K dzierski, Samuel
e kett and oland, in e nternational e e tion o am el e kett, edited by
M. Ni on and M. eldman, Continuum, London 2009, pp. 1 3-1 : p. 1 2 (corsivo
nostro), che cita e traduce K. Puzyna,
mrok, PIW, Warszawa 19 2, pp. 110-111).
S. Beckett, n attendant odot 1953 , Minuit, Paris 2009, pp. 0 e 12 .
Cfr. A. Cortellessa,
ango il mondo
e kett e eo ardi, in egole dal ielo a
letterat ra italiana nell o era di e kett, G. Alfano e A. Cortellessa, a cura di, Edup,
Roma 200 , pp. 111-20, a p. 119.
T. Kantor, Il teatro della morte, D. Bablet, a cura di, nuova edizione aggiornata,
Ubulibri, Milano 2003, p. 93.
Citato da M. Romanska, e ost tra mati t eatre o rotowski and Kantor istory
and olo a st in Akropolis and The Dead Class, nthem, London 201 , p. 212.
T. Kantor, alle note di regia
straneit , in Id., La classe morta, trad. di L.
Marinelli, Scheiwiller, Milano 2003, p. 2 .
Id., Il luogo teatrale cit., p. 166.
Id., Il teatro della morte cit., p. 235.
Ivi, p. 236.
S. Beckett, L’Innommable 1953 , Minuit, Paris 2011, p. 1 cfr. G. rasca, Lo spopolatoio cit., pp. 276-277.
Cfr. Id., ielo ole ielo ole cit., p. 147.
S. Beckett, orstward o cit., p. 81.
È inevitabile qui il rimando a G. Bachelard, La poetica dello spazio, trad. it. E.
Catalano, Dedalo, Bari 200 .
T. Kantor, ielo ole ielo ole cit., p. 9.
S. Beckett, Eh Joe [1965], in Id., e om lete ramati
orks, Faber and Faber,
London 200 , p. 3 2.
T. Kantor, ielo ole ielo ole cit., p. 184. Cfr. T. Gennaro, «Ça doit être dans la
tête». Lo spazio nascosto di Samuel Beckett, in atenza reterizioni reti enze e
silenzi del testo, tti del LIII Convegno Interuniversitario (Bressanone, 9-12 luglio
2015), . Barbieri e E. Gregori, a cura di, Esedra, Padova 201 , pp. 299-312.
Cfr. C. Bologna, Un’ipotesi sulla ricezione del De vulgari eloquentia: il codice
Berlinese,

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