LA kognitif tentang LUPA CAPITOLINA
LA LUPA CAPITOLINA
Nuove prospettive di studio
Incontro-dibattito in occasione della pubblicazione del volume di
AnnA MAriA CArrubA, La Lupa Capitolina: un bronzo medievale
Sapienza, Università di Roma, Roma 28 febbraio 2008
a cura di
GildA bArtoloni
Estratto
ROMA 2010
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
VOLONTÀ D’ARTE, STILE E TÉCHNE
Pur essendomi affrettato a leggere il libro della dottoressa Carruba in tempo utile per discuterne in
questa sede (o forse proprio perché l’ho fatto!), preferisco ora attenermi ad alcune rilessioni cui mi
aveva indotto subito la prima notizia circa le “clamorose” conclusioni cui l’autrice dello studio (e
del lavoro che lo precede) era pervenuta. Rilessioni che mi hanno riportato indietro nel tempo, ad
impressioni – alcune più altre meno meditate ma, credo, meritevoli di venire rispolverate in questa
occasione – raccolte nel corso di quelle mie indagini sul “Marte” di Todi alle quali credo di dovere il
cortese invito rivoltomi dai colleghi della “Sapienza” a partecipare a questo incontro.
È opportuno che io confessi subito che – sarà una certa atarassìa raggiunta con l’età, sarà invece inveterato vizio di esteta – la proposta di sottrarre la Lupa Capitolina all’arte antica, etrusca in
particolare, e aggiudicarla alla medievale, non ha suscitato in me alcun moto di scandalo: un simile
indiscutibile capolavoro potrebbe soffrire solo dall’essere disconosciuto tale, o dichiarato falso. Non
mi sento dunque ora chiamato a far parte di un collegio di difesa in una causa per “lesa etruscità”!
Semmai, proprio per avere più volte in passato sollecitato e positivamente sperimentato l’apporto di indagini di tipo tecnologico al chiarimento di problemi archeologici e storici (il rapporto di
reciproca sussidiarietà tra scienze “dure” e archeologia è ormai più che trentennale!), mi turba non
poco il veder riapparire, sullo sfondo di quel perentorio annuncio, il fantasma del vecchio presupposto teorico, forse inconsapevole ma palese, che accorda ancora e sempre al dato tecnico in quanto
tale forza suficiente a far piazza pulita di decenni di rilessione critica storica, iconograica, stilistica
ecc.: perché quello è solida scienza, queste sono fantasie; quelli sono fatti, queste chiacchiere. Mi
chiedo in altri termini – ed è questa la prima rilessione che mi sento di proporre qui – perché mai, se
si scopre che la statua della Lupa è stata fusa secondo un certo procedimento x, mentre ci risultava
che in antico si fondessero le statue nel modo y, al dato tecnico (la statua è stata fusa nel modo x) si
accordi maggior peso che a quello archeologico (la statua è antica), cosicché il verdetto cui, muovendo dal dato a sua disposizione, perviene il tecnologo («dunque la statua non è antica») prevale
su quello cui, con altrettanta fermezza ma con maggiore prudenza (o umiltà?), si attiene lo storico
dell’arte antica («dunque le nostre conoscenze circa le tecniche fusorie antiche non sono suficienti»). Tornerò più avanti su questo punto, che reputo non meno importante delle fortune critiche del
bronzo capitolino.
La rilessione sulla “Lupa” mi ha richiamato bruscamente al senso d’imbarazzo provato a suo
tempo (a proposito appunto del “Marte” di Todi) nel prendere atto delle precise scelte che l’autore di
quell’opera aveva compiute a Volsinii tra V e IV secolo a.C.: la prima – di natura squisitamente culturale e ben inserita nel quadro degli intenti politici della sua città – consistita nel citare con esibita
precisione prestigiosi modelli di ascendenza ateniese e idiaca; la seconda, stilistica, di arricchire del
200
FrAnCesCo ronCAlli
massimo di verisimiglianza “iconica” la propria opera ricorrendo alla lavorazione personale e diretta
di quella corazza che doveva, appunto, “parer vera”; e la conseguente scelta di adeguare a quelle
due esigenze il ricorso a distinte tecniche fusorie (che chiamai in quell’occasione rispettivamente
“indiretta” e “diretta”), dunque tutte già ben assimilate e compresenti nel suo bagaglio tecnologico,
evidentemente ricco e vario1. Ho parlato di imbarazzo: perché la combinazione del tutto disinibita
e trasparente di quelle scelte diverse e potenzialmente stridenti aveva inito per creare un prevedibilissimo pasticcio, che aveva indotto gli studiosi di storia dell’arte etrusca a paurose esitazioni e
oscillazioni nel giudizio e nelle proposte di datazione: essi infatti, non potendo in alcun modo situare
il “Marte” in un qualsiasi momento dell’età ellenistica, vagavano tra una sua assegnazione al conine
inferiore più spinto di un accettabile Retardieren – la seconda metà del IV secolo a.C. – e l’ipotesi di
un improbabile revival classicheggiante e atticistico ancora più avanzato nel tempo.
Ebbene: anche la Lupa Capitolina è stata già in passato giudicata – su questo non vi è alcun
dubbio – monumento sfuggente, «ambiguo» come già lo chiamava, ad esempio, Mauro Cristofani
nel catalogo della mostra su “La grande Roma dei Tarquini”2, «extra ordinem» come lo deinisce
ora Adriano La Regina nella sua presentazione del volume di cui qui stiamo discutendo: e non è un
caso che, accettatane l’antichità, anche per la Lupa (come, e con più forza, per la Chimera d’Arezzo) si sia affacciata l’ipotesi di una origine “altra”, nel caso magnogreca3. Per la verità non poco,
in tale ambiguità, sembra imputabile alla forzata immissione della “Lupa” – precoce e inevitabile a
Roma! – nell’alveo di quella tradizione romulea cui invece è originariamente estranea, almeno sul
piano formale, piuttosto che alle presunte contraddizioni stilistiche che vi si sono volute leggere
(perlopiù individuate nell’apparente conlitto fra stilizzazioni arcaicizzanti e pathos naturalistico)4.
Contraddizioni che, d’altronde, quando anni fa affrontavo anch’io il compito di catturare il mostro e
ingabbiarlo nella trama delle vicende artistiche sviluppatesi in Etruria5, mi erano apparse, al contrario, come tratti perfettamente riconoscibili delle espressioni più alte e compiute della plastica etrusca
dei decenni iniziali del V secolo a.C.6: perché la asciutta tensione (“stilizzazione”) del corpo della
lupa, quasi calligraicamente descritto, mi pare esplodere nella forza patetica del ringhio canino
della formidabile protome (“naturalismo”) in un modo che si pone nello stesso alveo in cui, mutatis
mutandis, forse poco più di una generazione prima, il colloquiare vivace e composto degli “Sposi”
dei sarcofagi ittili ceretani era visto sbocciare – busti, volti, mani, dita – da quei corpi appiattiti e
quasi fusi entro il volume della kline, quasi immateriali sotto la elegantissima descrizione delle vesti
pieghettate. Ma forse queste sono chiacchiere…
________
1
Su tutto questo cfr. ronCAlli 1973.
Roma 1990, p. 144 s., n. 6.10, tav. XV.
3
Problema considerato «ancora molto aperto e discusso» in orlAndini 1983, p. 457 s.
4
Si rileggano le lucide parole di E. Simon (siMon 1966): «Die Ursprünglichkeit ihrer Wirkung wird durch die
beiden Renaissance-Putten beeinträchtigt»; l’audace inserimento dei gemelli ne ha fatto uno «der berühmtesten
Pasticci in der Kunst aller Zeit»; «Erst der kritische Geist des Historismus hat die Gruppe wieder gesprengt und
die Frage nach der antiken Bestimmung der Lupa sowie die nach ihrem “kunstgeschichtlichen Ort” gestellt». Cfr.
anche torelli 1976, (Arte romana) n. 10.
5
ronCAlli 1986, p. 637.
6
Come avevano già affermato con assoluta certezza gli studiosi citati alla nota precedente.
2
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Ho fatto cenno alla Chimera d’Arezzo: ricordiamoci che anche questo capolavoro, nel quale giustamente Giovanni Colonna ha visto coesistere naturalismo plastico e modi subarcaici, è stato costretto dalla sua stessa straordinarietà a migrare non poco, se non attraverso i conini cronologici dell’antichità (ma
tra V e IV secolo a.C. sì), certo almeno lungo quelli culturali e geograici che corrono tra mondo greco,
siceliota, magnogreco ed etrusco: e qui, da Vulci a Volsinii, da Chiusi ad Arezzo alla Val di Chiana7.
E se i prodotti della ritrattistica in bronzo etrusco-italica hanno trovato una ormai più consolidata
e argomentata sistemazione in età medio-repubblicana, ciò si deve alla precoce rilessione (avviata
da R. Bianchi Bandinelli e G. von Kaschnitz-Weinberg nel 1924!) sui caratteri strutturali dell’arte
medio-italica: rilessione propiziata dal “basso continuo”, assai più serrato di quello disponibile per
altri “generi” della produzione igurativa etrusca, offertoci dalle testimonianze della coroplastica votiva, dove trova occasionale risposta in prodotti di altrettanto livello, non a caso sospettati, in alcuni
casi, di aver fatto da modello per realizzazioni in bronzo.
Il secondo punto, dunque, che tengo a sottolineare deriva proprio da queste osservazioni. I “grandi” bronzi rappresentarono certamente, in Etruria forse più che altrove, la punta dell’iceberg, gli
esponenti di massimo impegno e rango della produzione plastica a tuttotondo. Ora: un capolavoro è
sempre, per sua natura, grande epigono e grande capostipite, nel suo tempo e fuori del suo tempo; il
suo apparire extra ordinem si conigura come la conseguenza del suo uscire fuori misura rispetto a
standard ripetitivi – che spesso proprio da lui prendono le mosse – rappresentati dalla produzione più
corrente a noi pervenuta in massa, e che proprio per questo compone la maggior parte delle maglie
del tessuto storico dell’arte etrusca che siamo chiamati a ricostruire.
Se non si tiene ben presente questa “ambiguità” connaturata con ogni capolavoro in quanto
tale, il rischio di espropriare quelli della grande bronzistica etrusca a favore di altre mani (greche o
magnogreche) o altri tempi (come, nel nostro caso, il Medio Evo), è sempre dietro l’angolo: come
lo sarebbe quello di datare le opere di Antonio Canova in base agli angeli piangenti e alle colonne
spezzate cui esse stesse hanno dato la stura, e che ininterrottamente, proprio dal tempo del “novello
Fidia” ino ad oggi, hanno adornato e adornano i nostri campisanti.
Non meno insidioso di questo è un altro rischio, congenere ad ogni studio che contenga, come quello
di cui qui si discute, un’ampia messe di dati e indicazioni di carattere tecnico, preziose e ovviamente inedite in larga misura. Esso consiste nel cedere troppo precipitosamente alla tentazione di riconoscere nel
know-how così individuato (e magari ricorrente in una, due, dieci altre opere di un determinato periodo)
il “totale teorico” del sapere tecnologico di quello stesso tempo. Si rischia così di declassare scelte al livello di “non-scelte”, opzioni tecniche potenzialmente consapevoli e mirate a sintomo di limiti – in realtà
inesistenti – di capacità o conoscenze, o addirittura di canonizzare come caratterizzanti quel sapere anche
occasionali accidenti, come difetti di fusione e relativi apprestamenti riparatori. E il celebre racconto del
Cellini circa la “diabolica” fusione del suo Perseo ci dovrebbe insegnare che tutto, in quell’opera – tema,
iconograia, stile – siamo autorizzati ad assumere quale caratteristico del tempo in cui operò e dell’ambiente culturale in cui si muoveva: assai meno la tecnica, di cui vantava egli stesso l’audacia e novità, e
meno ancora la lega, nella quale erano initi quei suoi «dugento […] piatti e scodelle e tondi di stagno»8.
________
ColonnA 1985: «[...] un unicum che […] ha fatto scuola»; orlAndini 1983, p. 457 s.; Parigi 1992, p. 379,
n. 366.
8
B. Cellini, La vita, Libro II, LXXVII-LXXVIII. Quanto poi alle dificoltà presentate rispettivamente dal
7
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Fig. 1. londrA, British Museum. Busto bronzeo
dalla “tomba d’Iside” di Vulci (da ronCAlli 1998).
Vorrei proporre qui, a titolo d’esempio, un
tema che mi sembra particolarmente adatto a illustrare il forte legame che unisce, in ciascuna
opera, il signiicato voluto e preigurato, da un
lato, la scelta artistica e l’espediente tecnico via
via adottati per concretizzarlo, dall’altro.
È a tutti noto che, nella statuaria antica, un
modo ricorrente di rendere l’occhio (sia nei
bronzi laminati che in quelli a fusione) consiste nell’inserire nel cavo oculare, totalmente o
parzialmente aperto o solamente incassato per
farvi spazio, sostanze riportate. Per restare in
Etruria, gli esempi, che includono la nostra
Lupa, potrebbero moltiplicarsi: dal busto bronzeo (sfur»laton) della tomba d’Iside di Vulci
(Fig. 1)9 al Bruto Capitolino, dalla testa di Ariccia (Fig. 2)10 al già citato “Marte” di Todi, dalla
testa di Cagli (Fig. 3)11 al cinerario dell’Ermitage12 ai ritratti virili da Fiesole al Louvre (Fig.
4)13 e da S. Giovanni Lipioni alla Bibliothèque
Nationale (Fig. 5)14, ecc. (per limitarci ai bronzi: ma che tale esigenza/costume attraversasse
l’intera gamma delle rappresentazioni plastiche della igura umana è noto e testimoniato
da esempi quali la testa lignea forse vulcente
di Milano15, o dalle statue in arenaria da Casale Marittimo16). Ciò tuttavia non ci autorizza a
farne una norma, un modus operandi cogente e
immeditato, caratteristico di un’epoca o di tutta
________
getto e dall’assemblaggio delle parti, ci sorprende non poco l’episodio occorso all’artista in corso d’opera (cap.
LXIII): preso atto a malincuore della splendida riuscita della fusione separata del corpo di Medusa, la malalingua di Baccio Bandinelli avrebbe insinuato al duca Cosimo I il sospetto che «[…] se bene io gittavo qualcuna
di queste statue, […] mai io non le metterei insieme […]». Come se l’assemblaggio delle parti rappresentasse,
per l’orafo nuovo a quell’impegno, un passaggio più arduo della stessa fusione!
9
ronCAlli 1998.
10
Roma 1990, p. 144, n. 6.9, tav. XIV.
11
dohrn 1982, pp. 61 ss., 88, tav. 43; Venezia 2000, p. 626, n. 286 (G. bAldelli).
12
Leningrado 1990, p. 402 s., n. 8.1 (E. MAvleev).
13
bruni 2000, p. 383, e p. 631, n. 303 (G. pAoluCCi).
14
AdAM 1984.
15
bruni 2000, p. 369 (ill. alle pp. 222-223), e p. 586, n. 137 (A. sArtori).
16
bruni 2000, pp. 367, 370.
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203
Fig. 2. CopenAGhen, Ny Carlsberg Glyptotek. Testa giovanile in bronzo da Ariccia (da Roma 1990).
Fig. 3. AnConA, Museo Archeologico. Testa giovanile in bronzo da Cagli (da dohrn 1982).
Fig. 4. pAriGi, Musée du Louvre. Ritratto virile in
bronzo da Fiesole (da FrovA 1957).
Fig. 5. pAriGi, Bibliothèque Nationale. Ritratto virile in bronzo da San Giovanni Lipioni (da FrovA
1957).
204
FrAnCesCo ronCAlli
l’antichità (dallo Zeus di Ugento ai bronzi di
Riace, dall’Auriga di Deli all’Apollo di Piombino…). Si tratta invece, con ogni evidenza, di
un espediente prescelto in opere in cui la verisimiglianza e “magia” dello sguardo era percepita come necessaria a garantire l’eficacia e
funzionalità del simulacrum: fosse esso statua
di culto o funeraria o donario votivo. La forza di questa ragione ci è del resto confermata
e contrario là dove, attenuandosi o venendo
meno del tutto quella esigenza “iconica” primaria – come nel caso delle note oinochoai in
bronzo a testa umana tipo Gabii (Fig. 6)17 o nel
satiro(-sostegno di cratere?) di Armento – vediamo anche la scelta tecnica adeguarvisi e il
trattamento degli occhi rientrare, per così dire,
nei ranghi di una resa del volto umano più piana
ed eguale, descrittiva e senza tensione. E valga
a misurare la differenza, e cioè quale e quanta
Fig. 6. pAriGi, Musée du Louvre. Oinochoe in
fosse l’eficacia di quel particolare espediente,
bronzo a testa giovanile da Gabii (da dohrn 1982).
il confronto fra i due citati ritratti del Louvre
e della Bibliothèque Nationale (Figg. 4-5) nel
loro stato di conservazione accidentalmente diverso: nell’uno, in cui è andato perduto il riempimento dell’iride, lo sguardo ci appare ora quasi
reinserito armonicamente nell’evocazione ritrattistica della testa, mentre nell’altro, a dispetto dei
richiami formali classicheggianti (si veda la capigliatura!), esso fuoriesce quasi con violenza dalla
materia/bronzo; mentre il primo “è il ritratto di --”, il secondo “è --”, e il risultato ci si presenta come
un quid medium tra ritratto isionomico e inquietante ricostruzione da anatomopatologo forense.
Potremmo allora forse assumere la norma così acquisita, ancorché più sensibile e articolata della
precedente, quale criterio discriminante utile ad accogliere o respingere l’antichità di un bronzo?
Ancora una volta, no. Un invito alla prudenza ci viene dalla testimonianza di un altro “grande” bronzo etrusco, purtroppo mutilo: la testa maschile dal Lago di Bolsena conservata al British Museum
(Fig. 7)18, databile alla prima metà del IV secolo a.C., nella quale, nonostante le proporzioni, l’evidente carattere statuario e l’intenzione rappresentativa di un personaggio determinato (divino?), gli
occhi presentano l’iride semplicemente incisa sulla supericie chiusa del metallo. Non nascondo le
perplessità che questo bronzo ha sempre suscitato in me proprio a causa di una simile anomalia: ma
sono convinto di dovermele tenere per me, in sordina, in attesa di riuscire forse un giorno a capirne
il perché: che comunque (e di questo si può star certi in da ora!) non è di natura tecnica. Ma forse
________
17
18
dohrn 1982, p. 64, tav. 38; Parigi 1992, pp. 298, 394, n. 449.
dohrn 1982, p. 63 s., tav. 39; hAynes 1985, pp. 211, 300, n. 150; Venezia 2000, p. 622, n. 277 (J. swAddlinG).
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possiamo già intravederlo, quel perché, ipotizzando per quel bronzo un qualche contesto di
tipo “narrativo” (forse celebrativo?), nel quale
l’esigenza di viviicare lo sguardo del personaggio si stemperasse o cedesse del tutto il passo
alla rievocazione di un gesto o di un’azione, nel
quadro di un evento (miti-)storico. E se anche
nel “Putto Carrara” del Museo Gregoriano19 (un
piccolo “grande” bronzo di dimensioni di poco
inferiori al naturale!) gli occhi sono stati semplicemente descritti mediante l’incisione dell’iride
e della pupilla nel metallo, ciò potrebbe intendersi come un indizio non tenue del fatto che
sullo sfondo della scelta iconologica che ha
dettato la formulazione della statua si stagliasse
davvero la citazione intenzionale del fanciullo
tarquiniese kat’ ™xoc»n, il mitico Tagete, e che
dunque anche in questo caso il coinvolgimento
della iguretta in un’azione almeno idealmente
Fig. 7. londrA, British Museum. Testa virile in
parte di un dettato più vasto possa avere neubronzo dal Lago di Bolsena (da dohrn 1982).
tralizzato l’esigenza di personalizzare e sovraccaricare magicamente lo sguardo del fanciullo.
Valgano questi pochi esempi, scelti un po’
alla svelta, a restituire alla “volontà d’arte” dei bronzisti etruschi, e dell’autore della Lupa in particolare, la priorità che le spetta rispetto alla sensibilissima téchne in cui essa si traduce, e a meritare
agli studiosi di quella il dubbio e la prudenza degli analisti di questa.
FrAnCesCo ronCAlli
BIBLIOGRAFIA
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19
ronCAlli 1985.
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FrAnCesCo ronCAlli
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1966, p. 277-281, n. 1454.
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dell’antichità classica – Etruria, Roma, Torino 1976, (Arte romana) n. 10.
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Nuove prospettive di studio
Incontro-dibattito in occasione della pubblicazione del volume di
AnnA MAriA CArrubA, La Lupa Capitolina: un bronzo medievale
Sapienza, Università di Roma, Roma 28 febbraio 2008
a cura di
GildA bArtoloni
Estratto
ROMA 2010
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
VOLONTÀ D’ARTE, STILE E TÉCHNE
Pur essendomi affrettato a leggere il libro della dottoressa Carruba in tempo utile per discuterne in
questa sede (o forse proprio perché l’ho fatto!), preferisco ora attenermi ad alcune rilessioni cui mi
aveva indotto subito la prima notizia circa le “clamorose” conclusioni cui l’autrice dello studio (e
del lavoro che lo precede) era pervenuta. Rilessioni che mi hanno riportato indietro nel tempo, ad
impressioni – alcune più altre meno meditate ma, credo, meritevoli di venire rispolverate in questa
occasione – raccolte nel corso di quelle mie indagini sul “Marte” di Todi alle quali credo di dovere il
cortese invito rivoltomi dai colleghi della “Sapienza” a partecipare a questo incontro.
È opportuno che io confessi subito che – sarà una certa atarassìa raggiunta con l’età, sarà invece inveterato vizio di esteta – la proposta di sottrarre la Lupa Capitolina all’arte antica, etrusca in
particolare, e aggiudicarla alla medievale, non ha suscitato in me alcun moto di scandalo: un simile
indiscutibile capolavoro potrebbe soffrire solo dall’essere disconosciuto tale, o dichiarato falso. Non
mi sento dunque ora chiamato a far parte di un collegio di difesa in una causa per “lesa etruscità”!
Semmai, proprio per avere più volte in passato sollecitato e positivamente sperimentato l’apporto di indagini di tipo tecnologico al chiarimento di problemi archeologici e storici (il rapporto di
reciproca sussidiarietà tra scienze “dure” e archeologia è ormai più che trentennale!), mi turba non
poco il veder riapparire, sullo sfondo di quel perentorio annuncio, il fantasma del vecchio presupposto teorico, forse inconsapevole ma palese, che accorda ancora e sempre al dato tecnico in quanto
tale forza suficiente a far piazza pulita di decenni di rilessione critica storica, iconograica, stilistica
ecc.: perché quello è solida scienza, queste sono fantasie; quelli sono fatti, queste chiacchiere. Mi
chiedo in altri termini – ed è questa la prima rilessione che mi sento di proporre qui – perché mai, se
si scopre che la statua della Lupa è stata fusa secondo un certo procedimento x, mentre ci risultava
che in antico si fondessero le statue nel modo y, al dato tecnico (la statua è stata fusa nel modo x) si
accordi maggior peso che a quello archeologico (la statua è antica), cosicché il verdetto cui, muovendo dal dato a sua disposizione, perviene il tecnologo («dunque la statua non è antica») prevale
su quello cui, con altrettanta fermezza ma con maggiore prudenza (o umiltà?), si attiene lo storico
dell’arte antica («dunque le nostre conoscenze circa le tecniche fusorie antiche non sono suficienti»). Tornerò più avanti su questo punto, che reputo non meno importante delle fortune critiche del
bronzo capitolino.
La rilessione sulla “Lupa” mi ha richiamato bruscamente al senso d’imbarazzo provato a suo
tempo (a proposito appunto del “Marte” di Todi) nel prendere atto delle precise scelte che l’autore di
quell’opera aveva compiute a Volsinii tra V e IV secolo a.C.: la prima – di natura squisitamente culturale e ben inserita nel quadro degli intenti politici della sua città – consistita nel citare con esibita
precisione prestigiosi modelli di ascendenza ateniese e idiaca; la seconda, stilistica, di arricchire del
200
FrAnCesCo ronCAlli
massimo di verisimiglianza “iconica” la propria opera ricorrendo alla lavorazione personale e diretta
di quella corazza che doveva, appunto, “parer vera”; e la conseguente scelta di adeguare a quelle
due esigenze il ricorso a distinte tecniche fusorie (che chiamai in quell’occasione rispettivamente
“indiretta” e “diretta”), dunque tutte già ben assimilate e compresenti nel suo bagaglio tecnologico,
evidentemente ricco e vario1. Ho parlato di imbarazzo: perché la combinazione del tutto disinibita
e trasparente di quelle scelte diverse e potenzialmente stridenti aveva inito per creare un prevedibilissimo pasticcio, che aveva indotto gli studiosi di storia dell’arte etrusca a paurose esitazioni e
oscillazioni nel giudizio e nelle proposte di datazione: essi infatti, non potendo in alcun modo situare
il “Marte” in un qualsiasi momento dell’età ellenistica, vagavano tra una sua assegnazione al conine
inferiore più spinto di un accettabile Retardieren – la seconda metà del IV secolo a.C. – e l’ipotesi di
un improbabile revival classicheggiante e atticistico ancora più avanzato nel tempo.
Ebbene: anche la Lupa Capitolina è stata già in passato giudicata – su questo non vi è alcun
dubbio – monumento sfuggente, «ambiguo» come già lo chiamava, ad esempio, Mauro Cristofani
nel catalogo della mostra su “La grande Roma dei Tarquini”2, «extra ordinem» come lo deinisce
ora Adriano La Regina nella sua presentazione del volume di cui qui stiamo discutendo: e non è un
caso che, accettatane l’antichità, anche per la Lupa (come, e con più forza, per la Chimera d’Arezzo) si sia affacciata l’ipotesi di una origine “altra”, nel caso magnogreca3. Per la verità non poco,
in tale ambiguità, sembra imputabile alla forzata immissione della “Lupa” – precoce e inevitabile a
Roma! – nell’alveo di quella tradizione romulea cui invece è originariamente estranea, almeno sul
piano formale, piuttosto che alle presunte contraddizioni stilistiche che vi si sono volute leggere
(perlopiù individuate nell’apparente conlitto fra stilizzazioni arcaicizzanti e pathos naturalistico)4.
Contraddizioni che, d’altronde, quando anni fa affrontavo anch’io il compito di catturare il mostro e
ingabbiarlo nella trama delle vicende artistiche sviluppatesi in Etruria5, mi erano apparse, al contrario, come tratti perfettamente riconoscibili delle espressioni più alte e compiute della plastica etrusca
dei decenni iniziali del V secolo a.C.6: perché la asciutta tensione (“stilizzazione”) del corpo della
lupa, quasi calligraicamente descritto, mi pare esplodere nella forza patetica del ringhio canino
della formidabile protome (“naturalismo”) in un modo che si pone nello stesso alveo in cui, mutatis
mutandis, forse poco più di una generazione prima, il colloquiare vivace e composto degli “Sposi”
dei sarcofagi ittili ceretani era visto sbocciare – busti, volti, mani, dita – da quei corpi appiattiti e
quasi fusi entro il volume della kline, quasi immateriali sotto la elegantissima descrizione delle vesti
pieghettate. Ma forse queste sono chiacchiere…
________
1
Su tutto questo cfr. ronCAlli 1973.
Roma 1990, p. 144 s., n. 6.10, tav. XV.
3
Problema considerato «ancora molto aperto e discusso» in orlAndini 1983, p. 457 s.
4
Si rileggano le lucide parole di E. Simon (siMon 1966): «Die Ursprünglichkeit ihrer Wirkung wird durch die
beiden Renaissance-Putten beeinträchtigt»; l’audace inserimento dei gemelli ne ha fatto uno «der berühmtesten
Pasticci in der Kunst aller Zeit»; «Erst der kritische Geist des Historismus hat die Gruppe wieder gesprengt und
die Frage nach der antiken Bestimmung der Lupa sowie die nach ihrem “kunstgeschichtlichen Ort” gestellt». Cfr.
anche torelli 1976, (Arte romana) n. 10.
5
ronCAlli 1986, p. 637.
6
Come avevano già affermato con assoluta certezza gli studiosi citati alla nota precedente.
2
lA lupA CApitolinA
201
Ho fatto cenno alla Chimera d’Arezzo: ricordiamoci che anche questo capolavoro, nel quale giustamente Giovanni Colonna ha visto coesistere naturalismo plastico e modi subarcaici, è stato costretto dalla sua stessa straordinarietà a migrare non poco, se non attraverso i conini cronologici dell’antichità (ma
tra V e IV secolo a.C. sì), certo almeno lungo quelli culturali e geograici che corrono tra mondo greco,
siceliota, magnogreco ed etrusco: e qui, da Vulci a Volsinii, da Chiusi ad Arezzo alla Val di Chiana7.
E se i prodotti della ritrattistica in bronzo etrusco-italica hanno trovato una ormai più consolidata
e argomentata sistemazione in età medio-repubblicana, ciò si deve alla precoce rilessione (avviata
da R. Bianchi Bandinelli e G. von Kaschnitz-Weinberg nel 1924!) sui caratteri strutturali dell’arte
medio-italica: rilessione propiziata dal “basso continuo”, assai più serrato di quello disponibile per
altri “generi” della produzione igurativa etrusca, offertoci dalle testimonianze della coroplastica votiva, dove trova occasionale risposta in prodotti di altrettanto livello, non a caso sospettati, in alcuni
casi, di aver fatto da modello per realizzazioni in bronzo.
Il secondo punto, dunque, che tengo a sottolineare deriva proprio da queste osservazioni. I “grandi” bronzi rappresentarono certamente, in Etruria forse più che altrove, la punta dell’iceberg, gli
esponenti di massimo impegno e rango della produzione plastica a tuttotondo. Ora: un capolavoro è
sempre, per sua natura, grande epigono e grande capostipite, nel suo tempo e fuori del suo tempo; il
suo apparire extra ordinem si conigura come la conseguenza del suo uscire fuori misura rispetto a
standard ripetitivi – che spesso proprio da lui prendono le mosse – rappresentati dalla produzione più
corrente a noi pervenuta in massa, e che proprio per questo compone la maggior parte delle maglie
del tessuto storico dell’arte etrusca che siamo chiamati a ricostruire.
Se non si tiene ben presente questa “ambiguità” connaturata con ogni capolavoro in quanto
tale, il rischio di espropriare quelli della grande bronzistica etrusca a favore di altre mani (greche o
magnogreche) o altri tempi (come, nel nostro caso, il Medio Evo), è sempre dietro l’angolo: come
lo sarebbe quello di datare le opere di Antonio Canova in base agli angeli piangenti e alle colonne
spezzate cui esse stesse hanno dato la stura, e che ininterrottamente, proprio dal tempo del “novello
Fidia” ino ad oggi, hanno adornato e adornano i nostri campisanti.
Non meno insidioso di questo è un altro rischio, congenere ad ogni studio che contenga, come quello
di cui qui si discute, un’ampia messe di dati e indicazioni di carattere tecnico, preziose e ovviamente inedite in larga misura. Esso consiste nel cedere troppo precipitosamente alla tentazione di riconoscere nel
know-how così individuato (e magari ricorrente in una, due, dieci altre opere di un determinato periodo)
il “totale teorico” del sapere tecnologico di quello stesso tempo. Si rischia così di declassare scelte al livello di “non-scelte”, opzioni tecniche potenzialmente consapevoli e mirate a sintomo di limiti – in realtà
inesistenti – di capacità o conoscenze, o addirittura di canonizzare come caratterizzanti quel sapere anche
occasionali accidenti, come difetti di fusione e relativi apprestamenti riparatori. E il celebre racconto del
Cellini circa la “diabolica” fusione del suo Perseo ci dovrebbe insegnare che tutto, in quell’opera – tema,
iconograia, stile – siamo autorizzati ad assumere quale caratteristico del tempo in cui operò e dell’ambiente culturale in cui si muoveva: assai meno la tecnica, di cui vantava egli stesso l’audacia e novità, e
meno ancora la lega, nella quale erano initi quei suoi «dugento […] piatti e scodelle e tondi di stagno»8.
________
ColonnA 1985: «[...] un unicum che […] ha fatto scuola»; orlAndini 1983, p. 457 s.; Parigi 1992, p. 379,
n. 366.
8
B. Cellini, La vita, Libro II, LXXVII-LXXVIII. Quanto poi alle dificoltà presentate rispettivamente dal
7
202
FrAnCesCo ronCAlli
Fig. 1. londrA, British Museum. Busto bronzeo
dalla “tomba d’Iside” di Vulci (da ronCAlli 1998).
Vorrei proporre qui, a titolo d’esempio, un
tema che mi sembra particolarmente adatto a illustrare il forte legame che unisce, in ciascuna
opera, il signiicato voluto e preigurato, da un
lato, la scelta artistica e l’espediente tecnico via
via adottati per concretizzarlo, dall’altro.
È a tutti noto che, nella statuaria antica, un
modo ricorrente di rendere l’occhio (sia nei
bronzi laminati che in quelli a fusione) consiste nell’inserire nel cavo oculare, totalmente o
parzialmente aperto o solamente incassato per
farvi spazio, sostanze riportate. Per restare in
Etruria, gli esempi, che includono la nostra
Lupa, potrebbero moltiplicarsi: dal busto bronzeo (sfur»laton) della tomba d’Iside di Vulci
(Fig. 1)9 al Bruto Capitolino, dalla testa di Ariccia (Fig. 2)10 al già citato “Marte” di Todi, dalla
testa di Cagli (Fig. 3)11 al cinerario dell’Ermitage12 ai ritratti virili da Fiesole al Louvre (Fig.
4)13 e da S. Giovanni Lipioni alla Bibliothèque
Nationale (Fig. 5)14, ecc. (per limitarci ai bronzi: ma che tale esigenza/costume attraversasse
l’intera gamma delle rappresentazioni plastiche della igura umana è noto e testimoniato
da esempi quali la testa lignea forse vulcente
di Milano15, o dalle statue in arenaria da Casale Marittimo16). Ciò tuttavia non ci autorizza a
farne una norma, un modus operandi cogente e
immeditato, caratteristico di un’epoca o di tutta
________
getto e dall’assemblaggio delle parti, ci sorprende non poco l’episodio occorso all’artista in corso d’opera (cap.
LXIII): preso atto a malincuore della splendida riuscita della fusione separata del corpo di Medusa, la malalingua di Baccio Bandinelli avrebbe insinuato al duca Cosimo I il sospetto che «[…] se bene io gittavo qualcuna
di queste statue, […] mai io non le metterei insieme […]». Come se l’assemblaggio delle parti rappresentasse,
per l’orafo nuovo a quell’impegno, un passaggio più arduo della stessa fusione!
9
ronCAlli 1998.
10
Roma 1990, p. 144, n. 6.9, tav. XIV.
11
dohrn 1982, pp. 61 ss., 88, tav. 43; Venezia 2000, p. 626, n. 286 (G. bAldelli).
12
Leningrado 1990, p. 402 s., n. 8.1 (E. MAvleev).
13
bruni 2000, p. 383, e p. 631, n. 303 (G. pAoluCCi).
14
AdAM 1984.
15
bruni 2000, p. 369 (ill. alle pp. 222-223), e p. 586, n. 137 (A. sArtori).
16
bruni 2000, pp. 367, 370.
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Fig. 2. CopenAGhen, Ny Carlsberg Glyptotek. Testa giovanile in bronzo da Ariccia (da Roma 1990).
Fig. 3. AnConA, Museo Archeologico. Testa giovanile in bronzo da Cagli (da dohrn 1982).
Fig. 4. pAriGi, Musée du Louvre. Ritratto virile in
bronzo da Fiesole (da FrovA 1957).
Fig. 5. pAriGi, Bibliothèque Nationale. Ritratto virile in bronzo da San Giovanni Lipioni (da FrovA
1957).
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FrAnCesCo ronCAlli
l’antichità (dallo Zeus di Ugento ai bronzi di
Riace, dall’Auriga di Deli all’Apollo di Piombino…). Si tratta invece, con ogni evidenza, di
un espediente prescelto in opere in cui la verisimiglianza e “magia” dello sguardo era percepita come necessaria a garantire l’eficacia e
funzionalità del simulacrum: fosse esso statua
di culto o funeraria o donario votivo. La forza di questa ragione ci è del resto confermata
e contrario là dove, attenuandosi o venendo
meno del tutto quella esigenza “iconica” primaria – come nel caso delle note oinochoai in
bronzo a testa umana tipo Gabii (Fig. 6)17 o nel
satiro(-sostegno di cratere?) di Armento – vediamo anche la scelta tecnica adeguarvisi e il
trattamento degli occhi rientrare, per così dire,
nei ranghi di una resa del volto umano più piana
ed eguale, descrittiva e senza tensione. E valga
a misurare la differenza, e cioè quale e quanta
Fig. 6. pAriGi, Musée du Louvre. Oinochoe in
fosse l’eficacia di quel particolare espediente,
bronzo a testa giovanile da Gabii (da dohrn 1982).
il confronto fra i due citati ritratti del Louvre
e della Bibliothèque Nationale (Figg. 4-5) nel
loro stato di conservazione accidentalmente diverso: nell’uno, in cui è andato perduto il riempimento dell’iride, lo sguardo ci appare ora quasi
reinserito armonicamente nell’evocazione ritrattistica della testa, mentre nell’altro, a dispetto dei
richiami formali classicheggianti (si veda la capigliatura!), esso fuoriesce quasi con violenza dalla
materia/bronzo; mentre il primo “è il ritratto di --”, il secondo “è --”, e il risultato ci si presenta come
un quid medium tra ritratto isionomico e inquietante ricostruzione da anatomopatologo forense.
Potremmo allora forse assumere la norma così acquisita, ancorché più sensibile e articolata della
precedente, quale criterio discriminante utile ad accogliere o respingere l’antichità di un bronzo?
Ancora una volta, no. Un invito alla prudenza ci viene dalla testimonianza di un altro “grande” bronzo etrusco, purtroppo mutilo: la testa maschile dal Lago di Bolsena conservata al British Museum
(Fig. 7)18, databile alla prima metà del IV secolo a.C., nella quale, nonostante le proporzioni, l’evidente carattere statuario e l’intenzione rappresentativa di un personaggio determinato (divino?), gli
occhi presentano l’iride semplicemente incisa sulla supericie chiusa del metallo. Non nascondo le
perplessità che questo bronzo ha sempre suscitato in me proprio a causa di una simile anomalia: ma
sono convinto di dovermele tenere per me, in sordina, in attesa di riuscire forse un giorno a capirne
il perché: che comunque (e di questo si può star certi in da ora!) non è di natura tecnica. Ma forse
________
17
18
dohrn 1982, p. 64, tav. 38; Parigi 1992, pp. 298, 394, n. 449.
dohrn 1982, p. 63 s., tav. 39; hAynes 1985, pp. 211, 300, n. 150; Venezia 2000, p. 622, n. 277 (J. swAddlinG).
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possiamo già intravederlo, quel perché, ipotizzando per quel bronzo un qualche contesto di
tipo “narrativo” (forse celebrativo?), nel quale
l’esigenza di viviicare lo sguardo del personaggio si stemperasse o cedesse del tutto il passo
alla rievocazione di un gesto o di un’azione, nel
quadro di un evento (miti-)storico. E se anche
nel “Putto Carrara” del Museo Gregoriano19 (un
piccolo “grande” bronzo di dimensioni di poco
inferiori al naturale!) gli occhi sono stati semplicemente descritti mediante l’incisione dell’iride
e della pupilla nel metallo, ciò potrebbe intendersi come un indizio non tenue del fatto che
sullo sfondo della scelta iconologica che ha
dettato la formulazione della statua si stagliasse
davvero la citazione intenzionale del fanciullo
tarquiniese kat’ ™xoc»n, il mitico Tagete, e che
dunque anche in questo caso il coinvolgimento
della iguretta in un’azione almeno idealmente
Fig. 7. londrA, British Museum. Testa virile in
parte di un dettato più vasto possa avere neubronzo dal Lago di Bolsena (da dohrn 1982).
tralizzato l’esigenza di personalizzare e sovraccaricare magicamente lo sguardo del fanciullo.
Valgano questi pochi esempi, scelti un po’
alla svelta, a restituire alla “volontà d’arte” dei bronzisti etruschi, e dell’autore della Lupa in particolare, la priorità che le spetta rispetto alla sensibilissima téchne in cui essa si traduce, e a meritare
agli studiosi di quella il dubbio e la prudenza degli analisti di questa.
FrAnCesCo ronCAlli
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