La costruzione del Catasto Alessandrino

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La costruzione del “Catasto Alessandrino” (1660).
Agrimensori, geometri e periti misuratori
SUSAnnA PASSIgLI

Introduzione
Le piante delle tenute dell’Agro Romano conservate presso l’Archivio di Stato di Roma, meglio conosciute con il nome di Catasto
Alessandrino, sono ormai familiari agli studiosi di area romana.
non è azzardato affermare che questo documento cartografico, fin
dall’epoca della sua realizzazione, non sia mai stato oggetto di oblio.
Dapprima, fino al secolo XIX, come titolo di possesso da parte dei
proprietari fondiari dell’Agro e nell’ambito della pubblica amministrazione. Capita infatti, non di rado, di incontrare menzione
delle piante del 1660 o addirittura copia di esse, fra i protocolli notarili sette e ottocenteschi contenenti atti relativi alle proprietà
dell’Agro Romano. Una recente ricerca svolta fra i protocolli dell’archivio dei 30 notai Capitolini, grazie al lavoro di inventariazione
condotto da Orietta Verdi e collaboratori, ha evidenziato che fra i
secoli XVII e XVIII era ormai più che affermata l’attività di riproduzione di copie delle mappe seicentesche, tratte dagli originali conservati presso gli Uffici dei notai delle Acque e Strade. Tali copie,
destinate ad avere la funzione di allegato ai contratti notarili, presentano evidenti elementi di aggiornamento rispetto a quello che
era l’assetto territoriale raffigurato negli originali. Vi si possono infatti trovare annotati il mutato andamento dei confini, il nome dei
nuovi proprietari, le trasformazioni dell’ordinamento colturale.
Questi adeguamenti dimostrano che la pratica di utilizzare vecchie

piante non fosse applicata in modo acritico e impersonale. Le
piante alessandrine, al contrario, rappresentavano una base di conoscenza territoriale da tenere sempre in uso, uno strumento vivo
e funzionale per l’amministrazione interna dei patrimoni1. negli
ultimi anni del ’600, g. Battista Cingolani della Pergola ricompose
in una sorta di ‘quadro di unione’ le piante dell’Alessandrino nella
prima Carta topografica dell’Agro Romano, una topografia geometrica
che a sua volta funse da base per la Universale Allibrazione ordinata
dal papa Pio VI nel 1777, nota come Catasto Piano2. Successivamente, nel 1783, il corpus alessandrino venne riutilizzato e aggiornato per il Catasto Annonario dell’Agro Romano e infine nel 1801 per
il Catasto Daziale, pubblicato da nicola Maria nicolai nel 1803
con il corredo di una carta realizzata da Andrea Alippi3. nel 1795
La costruzione del “Catasto Alessandrino” (1660). Agrimensori, geometri e periti misuratori

bastò esibire la pianta del 1660 della tenuta di Pantano per dirimere
immediatamente una contesa per i confini fra i territori di Montecompatri e di Monte Porzio4 e, ancora, nel 1885 “la mappa catastale
del 1660” era ben nota in ambito parlamentare e oggetto di confronto con quella contemporanea da parte dei senatori impegnati,
l’8 luglio di quell’anno, nella discussione per la modifica della legge
sulla bonifica dell’Agro Romano5. Ai nostri giorni, le piante costituiscono ormai uno strumento indispensabile per economisti, geografi, medievisti, archeologi e architetti interessati alla storia del
territorio e alla topografia storica dell’Agro6.
Avendo già dedicato altri studi di carattere analitico al documento
cartografico in questione, in questa occasione mi concentrerò in

particolare sulle motivazioni che furono alla base della realizzazione
del documento nel contesto della cultura cartografica romana cinque e seicentesca e sulle figure professionali che vi furono impegnate, per concludere con una riflessione sulle dinamiche storiche
del territorio raffigurato, quello dell’Agro Romano, dinamiche che
in gran parte possono ricostruirsi proprio grazie alla cartografia seicentesca in questione.
I precedenti
La pratica di redigere carte a piccola scala per raffigurare terreni
dell’Agro Romano si può far rimontare agli ultimi anni del Quattrocento, anche se i primi documenti cartografici conservati risalgono a non prima della seconda metà del secolo successivo. Le più
antiche testimonianze sono costituite, per il momento, dal pagamento di due mensuratores per la realizzazione di piante dei casali di
proprietà del Capitolo di S. Pietro7.
Uno sviluppo sostanziale si registra a partire dagli anni centrali del
secolo XVI, la stessa epoca nella quale Eufrosino della Volpaia realizzava la prima carta particolareggiata della Campagna Romana,
utilizzata come guida per i cacciatori8. Il Paese di Roma del 1547, pur
essendo pianta non sempre fedele dal punto di vista geometrico,
lascia tuttavia trapelare concreti intenti realistici. Il suo studio analitico da parte di Jean Coste ha infatti messo in evidenza che gli abitati in uso vi sono distinti da quelli abbandonati, inoltre che ai veri

1. Archivio di Stato di Roma, Presidenza
delle Strade, Catasto Alessandrino,
430/3. Torre S. Giovanni.

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e propri villaggi è dato un risalto diverso rispetto alle abitazioni rurali e, infine, che queste ultime non si possono confondere con altri
elementi edilizi di spicco della Campagna Romana quali erano le
torri di più antica costruzione e gli edifici per l’ospitalità fabbricati
lungo le strade, le osterie. E, ancora, vi è chiara l’intenzione di localizzare sia le diverse formazioni vegetali - bosco, canneto, pantano
- sia le varie forme di sfruttamento agricolo - filari di vigna, estensioni cerealicole, prati da sfalcio.
Di tutt’altro genere, per la quantità di dettagli e per lo stile, erano
le carte a piccola scala le quali, oltre che fungere da titolo di possesso dei fondi, sempre più spesso venivano incluse negli atti notarili di compravendita e affitto in qualità di perizie e stime del
terreno oggetto di transazione, corroborate dalla firma di un perito
agrimensore o misuratore. nell’atto di vendita del casale di Capo
di Bove, per esempio, atto stipulato il 20 marzo 1589 da parte dei
fratelli Mutini a favore dell’ospedale del Salvatore, veniva specificato a proposito della superficie del casale, che i contraenti “mensurari voluerunt per hos agrimensores”, agrimensori dei quali si
riportano nome e cognome: Cesareo gattola e Marcantonio galassi9. Tale misura avrebbe garantito la correttezza dell’operazione
e sarebbe stata di beneficio per ambedue i contraenti i quali si sarebbero impegnati in futuro a non sporgere alcun reclamo. Testimonianza di questa pratica può trovarsi pure espressa direttamente
sullo stesso documento cartografico, come nel caso dell’annotazione in margine a una pianta del casale di Pietra Pertusa di proprietà del Capitolo di S. Pietro che contiene il riferimento all’atto
notarile del 22 maggio 1606, atto al quale la pianta era allegata10.
Piante raffiguranti due tenute confinanti, sin dalla fine del ’500,
venivano facilmente unite agli atti di appositio terminum. Tali contratti contengono l’esatta descrizione dell’andamento del confine
fra due proprietà con il ricorso a elementi topografici significativi,
quali manufatti ed elementi del paesaggio naturale11. La finalità di

simili documenti cartografici non era, dunque, solo legata alla qualità estetica o decorativa delle raffigurazioni ma rispondeva a una
indiscussa funzione giuridica. Le piante dei singoli fondi, commissionate soprattutto dagli enti religiosi più importanti in rapporto
alla propria capacità organizzativa, adempievano inoltre alla necessità di disporre di una stima preventiva del valore delle terre di un
casale, poiché questo ormai non veniva più concesso in affitto nel
suo complesso come in precedenza, ossia a corpo, ma a misura, ossia
per singole unità di superficie. Da qui l’iniziativa, lanciata dagli
enti più prestigiosi, come per esempio il Capitolo di S. Pietro nel
1555 o l’ospedale del Salvatore ad Sancta Sanctorum nel 1599, di
effettuare vere e proprie ‘campagne di misurazione’, i cui esiti in
entrambi i casi sono noti, purtroppo, solo attraverso copie o memorie successive12.
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Una pianta costituiva inoltre un corredo quasi indispensabile nel
caso di atti concernenti liti per questioni territoriali. Fu così, per
esempio, che nel 1618 l’architetto Francesco Peperelli ricevette l’incarico dai canonici della chiesa di S. Salvatore in Lauro di Roma di
realizzare una pianta del territorio di Mentana13. La questione concerneva il diritto di percepire le vigesime, ossia una imposta pari
alla ventesima parte dei frutti raccolti nei terreni ad essa soggetti,
da parte del clero responsabile della cura animarum. La chiesa romana, in virtù dell’unione con un’antica chiesa parrocchiale situata
nel territorio in questione, vantava diritti su alcuni beni fondiari
nel territorio di Mentana e i suoi canonici intendevano difenderli

contro le mire del principe Peretti il quale, invece, aveva interesse a
diminuirne la superficie. Lo scopo della pianta era dunque quello
di fornire una base concreta per la discussione sull’entità del territorio soggetto alle vigesime e di qui scaturiva la necessità di elencarne con precisione i confini, i territori annessi e quelli circostanti.
Più rari e generalmente di epoca successiva, ma di grande interesse
ai fini dell’analisi delle strutture edilizie, sono i casi di piante allegate
ai contratti stipulati per l’esecuzione di lavori. Un bell’esempio di tale
pratica è costituito da una pianta e un prospetto ad inchiostro e acquerello, realizzati dal “muratore, falegname e ferraro” giovan Carlo
Pratesi, in veste anche di affittuario della tenuta di S.Andrea14. nella
tenuta, situata al secondo chilometro della via Anagnina, esisteva allora solo una “torre spaccata”, un rudere ormai inutilizzabile se non
come nucleo interno di un casale di due stanze che il Pratesi intendeva edificare. A tal fine, egli stanziò la somma di duecento scudi da
trattenersi nel pagamento dell’affitto dovuto alla proprietaria, la principessa Cesarini Colonna. Oltre che documentare la struttura dell’edificio rurale settecentesco, l’atto corredato dalla pianta costituisce
l’unica testimonianza della presenza di una più antica torre. Questa,
con tutta probabilità, risaliva al secolo XIII e si trovava al centro del
tipico insediamento rurale della Campagna Romana nato nell’ambito del fitto mosaico di casali agricoli caratterizzati da un nucleo di
strutture edilizie fra le quali spiccava proprio la torre15.
Alle origini dell’iniziativa di Alessandro VII
La prima sistematica produzione di piante di tutte le tenute dell’Agro Romano fu ordinata nel mese di gennaio 1660 dal pontefice
Alessandro VII Chigi, il quale affidò il compito di realizzare l’impresa all’Ufficio della Presidenza delle Strade. L’organismo esisteva
fin dagli inizi del ’400 all’interno della Reverenda Camera Apostolica, ma fu nei due secoli successivi che si andò definendo la sua
forma normativa e organizzativa16. Una delle sue principali competenze consisteva nella manutenzione della viabilità extraurbana. E

i compiti della magistratura per la riparazione e la manutenzione
delle strade potevano essere svolti solo grazie al contributo dei proSusanna Passigli

prietari dei terreni e delle tenute che vi si affacciavano. Va tenuto
presente, a tal proposito, che per il territorio romano fino a tutto il
’500, l’unico strumento tributario a disposizione era costituito dalle
denunce presentate dai proprietari dei terreni. ne scaturiva una ripartizione del tributo per il riattamento delle antiche vie consolari
dal carattere molto incerto perché condizionata dalla veridicità di
tali denunce. Testimonianza di esse si conserva nei registri fiscali
delle Taxae Viarum, conservati a partire dai primi decenni del secolo
XVI17. Lo stato della viabilità extraurbana si presentava in modo disuguale e generalmente degradato anche perché i proprietari tendevano a sottrarsi al versamento, preferendo occuparsi essi stessi in
prima persona della manutenzione del tratto di strada esteso davanti alla propria tenuta. Fu proprio per disporre di una migliore
conoscenza delle proprietà rurali, ai fini della tassazione imposta
per i lavori stradali dell’Agro, che il pontefice dispose che ciascun
proprietario di tenuta giacente lungo le strade consolari dovesse far
eseguire da un perito agrimensore la pianta esatta della sua proprietà, pianta che doveva poi essere presentata all’Ufficio del notaio
delle Acque e Strade. Quella sede, per oltre duecento anni, garantirà ad amministratori pubblici e notai il diritto di consultare le
piante alessandrine e di ricavarne copie per gli usi consentiti dalla
legge. L’editto emanato dal Presidente delle Strade, in particolare,
prescriveva che per le vigne ubicate nel suburbio fossero rinnovate

le denunce giurate (“in quanto alle vigne l’assegna o denuncia giurata della quantità delle pezze”), mentre per le tenute estese nella
fascia territoriale circostante, venissero prodotte – fatto, allora, del
tutto inedito - piante topografiche con l’indicazione della superficie
(“e quanto alle pediche, casali o terreni, la pianta”)18. Le piante, per
avere valore ufficiale, dovevano essere redatte e sottoscritte da un
perito agrimensore. In aggiunta a questo compito, il 27 novembre
1659 era stato imposto dall’Ufficio della Presidenza delle Strade:
“che ciascun architetto delle Strade fuori delle Porte faccia la Pianta
di ciascuna delle dette strade con descriverci li casali et castelli et
anco le dette strade fino alle quaranta miglia”19.
Il corpus Alessandrino, se non un vero e proprio catasto, rappresenta
dunque una prima collezione sistematica di piante per l’intero territorio dell’Urbe: esso è composto da trecentosettantasette piante
contenenti il rilevamento delle quattrocentoventiquattro tenute allora presenti nell’Agro Romano20. Ma, a dispetto del carattere unitario dell’impresa, il suo aspetto prevalente è quello della
eterogeneità. Infatti l’editto pontificio imponeva unicamente ai proprietari di consegnare entro trenta giorni la pianta “sottoscritta da
un pubblico Agrimensore, di dette pediche, casali, o terreni, con la
qualità delle rubbia, distinzioni di tutti li confini, del nome e del
luogo dove son posti e della strada della quale si servono”. Oltre la
misura della superficie espressa in rubbia (un rubbio equivale a ettari
La costruzione del “Catasto Alessandrino” (1660). Agrimensori, geometri e periti misuratori


1.848) e l’elenco dei confini, gli elementi che non potevano mancare
erano dunque il toponimo del fondo e il nome della strada di cui si
serviva il proprietario per raggiungere il suo terreno. Per il resto, era
lasciata totale libertà di raffigurazione nel contenuto e nello stile. In
effetti, fra tutti i requisiti imposti, l’unico elemento annotato regolarmente su tutte le carte era la cifra indicante la superficie.
Dati i ristretti limiti di tempo, venivano inoltre ammessi sia originali, risalenti in alcuni casi al secolo precedente, sia copie di piante
i cui proprietari intendevano conservare l’originale, sia infine carte
eseguite da agrimensori o architetti, in molti casi realizzate in tutta
fretta. Lando Scotoni ha calcolato che, con una estensione totale
di circa 201.600 ettari, per rilevare tutte le tenute dell’Agro i circa
cinquanta agrimensori attivi per il Catasto Alessandrino avrebbero
dovuto misurare giornalmente una superficie di circa 155 ettari. Si
tratta di una mole di lavoro irrealizzabile, dato che la superficie
media quotidiana di terreno rilevabile non superava i sette o otto
ettari, ancora nella seconda metà del secolo XIX21. Era dunque sufficiente che i contorni della tenuta fossero esatti e la superficie fosse
garantita da un perito agrimensore, per soddisfare le esigenze prettamente fiscali dell’operazione. Lo scarto cronologico talora esistente fra la pianta originale e quella copiata per la consegna
all’Ufficio della Presidenza delle Strade giustifica alcune incongruenze che si possono evidenziare per quanto riguarda i confini e
i toponimi, che nel frattempo avevano subito variazioni: questo
dato non deve sfuggire all’attenzione dello studioso che desideri ricostruire le dinamiche della proprietà fondiaria in quanto costituisce testimonianza di una fase di trasformazione22. nonostante
l’espediente della copia, che interessa una buona parte delle piante

del corpus, l’enorme impegno giustificò un generalizzato ritardo rispetto alla scadenza dei termini per la consegna, consegna che
venne completata per lo più fra i mesi di aprile e maggio 1660.
Sulle piante, il tracciato dei confini era di tipo geometrico, se reso
attraverso tratti rettilinei, oppure si basava sul reticolo idrografico o
su quello viario tradendo, in questi casi, una maggiore antichità e
potendosi confrontare con gli elenchi di confini contenuti negli atti
notarili di compravendita e affitto dei casali conservati a partire dalla
seconda metà del secolo XIV23. nonostante alcune distorsioni, esso
risulta effettivamente preciso, al punto che solo pochi decenni più
tardi l’agrimensore giovanni Battista Cingolani ridisegnò le tenute
dell’Alessandrino a scala più grande, raffigurando su carta, per la
prima volta, l’esatta delimitazione della ripartizione territoriale amministrativa corrispondente all’Agro Romano (fig. 2)24. I toponimi
delle tenute testimoniano la permanenza in uso di molti termini relativi ai manufatti rurali risalenti ai secoli precedenti come torre, castello, ospedale, borghetto. A questi, si affiancano i nomi mutuati
da quelli dei proprietari laici, spesso resi al femminile, fra i quali è
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2. Superficie dell’Agro Romano come
risulta dal ‘quadro di unione’ delle piante
del Catasto Alessandrino realizzato da
G.B. Cingolani nel 1692 (da Atlante

storico-politico del Lazio 1996, tav.
XXXI).

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possibile distinguere quelli più antichi da quelli contemporanei grazie alla conoscenza delle principali famiglie e della loro provenienza
geografica e sociale. I capitoli delle grande basiliche e gli ospedali romani ricorrono frequentemente fra i nomi delle tenute e fra quelli
dei loro confini, rendendo palese la grande incidenza della proprietà
ecclesiastica all’interno dell’Agro. Ad altra categoria appartengono
i toponimi derivanti dagli elementi ambientali e dalle forme produttive, fra le quali spicca quella dell’allevamento25.
non esistevano ulteriori prescrizioni circa la scala, i criteri di rilevamento e l’orientamento, il disegno dei fabbricati, la resa grafica dei

terreni agricoli. Essendo l’esecuzione di tali particolari affidata alla
sensibilità e alle capacità tecniche dei singoli agrimensori, i palazzi,
le torri, i precoi, le osterie, le cappelle rurali e gli elementi del paesaggio risultano raffigurati con diverse tecniche e diversi stili e non
necessariamente in modo realistico (figg. 3, 4). Ma, tanto i manufatti
- anche quelli apparentemente più secondari, come ponti, mole e
fontanili - quanto le componenti naturali come per esempio la rete
idrografica, quando conservati, appaiono di solito individuabili nella
cartografia attuale, il che indica una sostanziale precisione del rilievo.

grazie al confronto con le fonti demografiche contemporanee – in
particolare la registrazione degli Stati delle Anime e le relazioni delle
Missioni – è anche possibile verificare l’esattezza della fonte cartografica seicentesca riguardo alla consistenza dell’insediamento e alla
sua funzione26. Osservando le piante nel loro insieme, vi si rileva infatti la precisa distinzione, grazie alla resa grafica, fra le diverse scale
dimensionali dell’insediamento e fra edifici adibiti a residenza fissa
oppure all’ospitalità temporanea, alla cura spirituale, al riparo del
bestiame e infine vi spiccano i nuclei edilizi originari delle antiche
aziende agricole ormai abbandonate.
Oltre agli indicati scopi fiscali, alla base dell’iniziativa pontificia vi
erano anche motivazioni di carattere annonario. A partire dalla seconda metà del ’500, l’esigenza da parte dei pontefici di intervenire
con misure coercitive nei confronti dei proprietari scaturisce da
quella che divenne, da quel periodo in poi, una caratteristica permanente dell’Agro ossia il mancato sfruttamento agricolo delle tenute con la conseguente scarsità cronica di grano per la città. Per
non correre i rischi della coltivazione o per la carenza di operai agricoli, e nonostante le ripetute disposizioni pontificie che prescrivevano la semina di almeno un terzo della superficie delle tenute, i
proprietari tendevano infatti a sfruttare le proprie tenute quasi
esclusivamente per il pascolo attraverso la concessione ai mercanti
di bestiame. Una ricognizione puntuale delle caratteristiche e delle
vocazioni produttive delle aziende agricole avrebbe contribuito in
modo sostanziale a controllare il rispetto delle prescrizioni, allo
scopo di assicurare i rifornimenti alimentari alla città.
nonostante questi precisi intenti, l’utilizzazione del suolo è presentata nelle piante in modo spesso lacunoso, al punto da far pensare
a dichiarazioni volutamente reticenti, volte ad alleggerire la tassazione dovuta da ciascun proprietario dei fondi27. Il paesaggio delle
tenute è tuttavia reso nella maggior parte delle piante attraverso
una simbologia che differenzia i vari tipi di terreno agricolo e il diverso ordinamento delle colture. Emerge infatti in modo significativo una considerevole diversificazione delle varie produzioni
agricole, attraverso il riparto in terreni lavorativi, pascoli, prati,
monti falciativi, macchie, boschi, vigne, arboreti, oliveti, canneti,
terreni sodi o incolti (fig. 5). A questi si aggiungono altri elementi
Susanna Passigli

geografici che componevano il movimentato paesaggio della Campagna Romana, quali corsi d’acqua, spallette, cavoni e monti28. Le
molteplici forme produttive raffigurate possono essere messe a confronto con quelle elencate in altre fonti, ormai diffusamente utilizzate in ambito storico economico, come i registri amministrativi e
gli inventari delle aziende29. Inoltre, il Libro dei Casali dei primi anni
del ’600, contenente una raccolta sistematica di notizie sulle tenute
della campagna di Roma basata sugli archivi notarili, correda ulteriormente queste descrizioni. Il quadro che ne scaturisce è quello
di una campagna ancora decisamente produttiva: fra i terreni cerealicoli, anche quelli compresi nel corpo delle tenute e non solo
nella fascia suburbana a ridosso delle mura, si trovavano spesso parcelle sfruttate intensivamente a vigna e orto. All’azienda del precoio,
il recinto destinato all’importantissimo allevamento delle vacche
rosse, si affiancava il personale addetto al pascolo delle pecore. Per
completare il disegno delle strade, figurano talvolta i carrettieri che
trasportavano l’erba falciata nei preziosi prati ubicati lungo tutti i
corsi d’acqua. Le formazioni forestali destinate alla ceduazione si
distinguevano, in base alla consistenza e alla qualità delle componenti specifiche, in arboreti, boschi, boschetti, selve, selvotte e macchie.
E non vi mancavano anche tracce di altre attività per lo sfruttamento delle risorse ambientali, come le cave di pozzolana e le grotte
per l’estrazione del salnitro.
Le competenze in gioco
Il valore legale delle piante alessandrine era garantito dalla firma
autografa di una ben precisa figura di professionista, quella dell’agriLa costruzione del “Catasto Alessandrino” (1660). Agrimensori, geometri e periti misuratori

mensore. Del resto, anche in precedenza come si è visto sopra, nel
caso di transazioni o di questioni giuridiche pertinenti al territorio
romano, questa stessa figura di perito aveva la funzione di rinforzare
il ruolo del notaio.
gli agrimensori che rilevarono, disegnarono, o semplicemente copiarono, le carte per il Catasto Alessandrino sono in tutto settantadue, dei quali una cinquantina gli effettivi autori delle piante del
1660. nei casi di piante rilevate in precedenza o copiate da originali
più antichi, talvolta compaiono entrambi i nomi degli agrimensori
autori dell’originale e della copia, agrimensori che non hanno redatto congiuntamente la pianta. E’ questo il caso, per esempio,
della firma combinata di Paolo Cordiale e di Paolo Picchetti, il
primo attivo solo fino al 1625 e quindi autore del solo originale e
il secondo, firmatario di varie carte negli anni 1660 e 1661, il quale
fu invece autore unicamente della copia. Spesso, l’ipotesi della copiatura da una precedente pianta è avvalorata non solo da criteri
estetici, ma anche dal limitato lasso di tempo che gli autori ebbero
a disposizione per la consegna. Un esempio lampante di questo
modo di procedere è costituito dalla produzione di giusto Quaranta, l’agrimensore della famiglia Borghese, il quale eseguì, copiò
o convalidò una cinquantina di mappe. Quindi è presumibile che
molte di esse fossero ricavate dagli originali di un suo precedente
rilevamento, conservate presso i proprietari, oppure si trattò di
copie realizzate da un disegnatore attivo nella sua bottega e poi autenticate dall’autore stesso.
Tentare di realizzare un censimento degli agrimensori attivi nella
Roma seicentesca non è facile, come non è facile delineare le bio-

2. Esempi di piante realizzate con
tecniche e stili completamente diversi.
Archivio di Stato di Roma, Presidenza
delle Strade, Catasto Alessandrino,
429/37 San Matteo, pianta realizzata
dall’agrimensore Francesco Taraburella di
Frascati nel 1660, a penna,
estremamente sintetica e priva di
rifiniture, con le tracce della misurazione;
4. Archivio di Stato di Roma, Presidenza
delle Strade, Catasto Alessandrino,
432/9 Castagnola, Riotorto, Piancimino
e La Fossa, casale di proprietà del Duca
Cesarini raffigurato, al contrario, con
stile realistico e grande ricchezza di
particolari relativi al paesaggio rurale.

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grafie dei professionisti impegnati nel campo della cartografia. Ma,
se dall’elenco riportato nella tabella in Appendice si eliminano i
nomi di una ventina di agrimensori la cui attività si può ascrivere a
un periodo precedente il 1660 e che quindi in quell’epoca dovevano
essere certamente morti – ossia Ascanio Antonietti, Ludovico Appiani, Francesco Maria Bambocci, Bernardino Calamo, Domenico
Castelli, Paolo e Rodolfo Cordiale, Marcantonio galassi, Mario e
Attanasio gentile, Bartolomeo gritti, Prospero de Rocchis, Bernardino e Ortensio Toro, Francesco e nicolò Torriani, molti dei quali
svolsero anche un’intensa e ben documentata attività come architetti e misuratori – si ottiene un quadro che può definirsi abbastanza
fedele delle figure professionali attive nella Roma della metà del
’600. Si tratta infatti, sostanzialmente, dei medesimi nomi che ricorrono nelle poche altre fonti contemporanee a nostra disposizione, gli archivi patrimoniali degli enti ecclesiastici, gli archivi degli
uffici edilizi dell’amministrazione centrale e i protocolli notarili.
Agrimensori, geometri e periti misuratori di terreni erano gli unici
professionisti che a Roma dovevano sottoporsi a un esame. Questi
misuratori appartenevano alla corporazione degli agricoltori, dalla
quale dipendeva il rilascio delle patenti di agrimensore e perito agronomo, competenze che a partire dal 1735 appaiono associate. Dunque, superata la prova, il Tribunale dell’Agricoltura rilasciava una
patente il cui formulario ci è trasmesso da una fonte settecentesca:
Dovendosi provedere di un agrimensore e perito respettivamente del nostro
Consolato dell’Agricoltura (…) vi creamo, eleggiamo e vi deputiamo per uno
dell’agrimensori e periti dell’Agricoltura con tutte le facoltà solite e necessarie, e quando vi sarà ordinato e sarete richiesto con ogni attenzione et diligenza e senza alcun dolo et fraude misurare tutte sorti di terreni, tanto
prativi, seminativi, macchiosi, selve, vigne, canneti e ogn’altra sorte, secondo
la vostra coscienza e perizia fare qualsivoglia stima concernente detta nostra
arte, ed anche de danni dati di qualsivoglia sorte secondo la disposizione de
nostri statuti con darne le dovute perizie e relazioni con giuramento30.

I compiti del Perito Agrimensore sono ben precisati anch’essi da
una fonte più tarda, ma da considerarsi valida anche per il secolo
precedente. Per quanto riguarda la teoria, l’agrimensore doveva essere versato in aritmetica, avere cognizione dei termini e dei principi geometrici, sapere cosa fosse la misura “e le diversità di esse
misure secondo le cose, che si possono misurare”: era cioè tenuto
a conoscere, in particolare, le regole per misurare i terreni in rilievo
(“al Monte”).
Come si prendano gli angoli in campagna nell’atto di misurare, e come poi
si adattino a suo luogo al tavolino nel formare la pianta del terreno misurato,
e con quali strumenti rispettivamente; e così pure con quali regole, ed avvertimenti formar debba la pianta del terreno misurato, e con qual metodo
dimostrare nella stessa con chiarezza le rispettive qualità, e particolarità di
esso terreno; e finalmente con quali metodi rilevare aritmeticamente le quantità de’ terreni misurati, secondo le diversità delle figure regolari formate sul

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Susanna Passigli

fatto, ed ancora di quelle, che sul fatto medesimo fossero state prese irregolarmente per poscia a tavolino ridurle a forme regolari. Ed insomma dovrà
essere versato in tutte quelle cose, che spettano alla cognizione delle materie
di Agrimensura, oltre delle quali cose dovrà ancora aver cognizione delle
qualità de’ terreni, arborature, e frutti, e di tutto ciò, da che se ne deve desumere il loro valore, e stima”, dalla “Istruzione osia compilazione di quelle
cose, nelle quali devono essere versati tanto in teoria, che in pratica li Periti
Idrostatici, Architetti, Agrimensori, ed Agricoltori, stampata in esecuzione
delle provisioni, ed ordinazioni sopra li periti31.

Un sondaggio fra i protocolli dei notai del Tribunale dell’Agricoltura illustra, in pratica, quelle che risultano le funzioni più consuete
svolte dagli agrimensori e misuratori negli anni centrali del secolo
XVII. In particolare, si ricorreva al “misuratore da eleggersi a spese
comuni fra le due parti, in caso di discordia”; oppure per il calcolo
della superficie dei terreni falciativi all’interno delle tenute dell’Agro Romano, quando queste fossero vendute “non a corpo, ma
a misura”32. Per ciascuna mansione esistevano ben precise tariffe
secondo il tipo di misura da effettuarsi, fissate negli Statuti dell’Agricoltura del 1718. Per esempio, per la misura delle macchie, la
più complicata date le condizioni geografiche, venivano corrisposti
venti baiocchi il rubbio, mentre per i preziosi prati da sfalcio dodici,
per i terreni seminativi dieci, per le superfici a prato e pascolo sette.
Sempre secondo la prassi stabilita nel 1718, per le operazioni quantificabili a giornata la paga era di quattro scudi al giorno33.
È da rilevare come anche il mestiere dell’agrimensore si tramandasse all’interno della famiglia, di padre in figlio, analogamente a
quello di architetto o scultore. Le due competenze, in effetti, figuravano spesso sovrapposte, come illustrato dalle testimonianze che
seguono.
Sia gli architetti sia gli agrimensori lavoravano per proprietari privati
e, contemporaneamente, comparivano alle dipendenze di organi
centrali, come l’Ufficio della Presidenza delle Strade. Intorno alla
metà del ’600, per fare un esempio, Domenico Castelli ricopriva
gli incarichi di misuratore di Camera, soprastante alle Fabbriche,
incaricato dell’Acqua Paolina, architetto di Campidoglio, architetto
delle Acque34. gli stessi agrimensori impegnati nella redazione dei
rilievi delle proprietà rurali svolgevano anche incarichi per conto
della Presidenza delle Strade, come risulta dalle Congregazioni di
tale ufficio risalenti agli anni 1643-166035. La redazione di piante
delle chiaviche, i sopralluoghi per controllare lo stato di ponti, muri
e strade, gli scandagli preliminari per l’esecuzione di lavori vari, sono
alcuni dei compiti assegnati agli architetti giovanni Pietro Moraldi,
giacomo Pellicani, Vincenzo della greca, giulio Martinelli, Pietro
Paolo Drei, Camillo Arcucci - nel mese di aprile 1651, in qualità di
deputati architetti regionum Urbis - o a Paolo Picchetti, il 6 febbraio
1659, nella veste di architetto deputato della Strada Flaminia. Furono proprio loro che, a partire dal 27 novembre dello stesso anno,
La costruzione del “Catasto Alessandrino” (1660). Agrimensori, geometri e periti misuratori

furono impegnati ad eseguire l’ordine “che ciascuno architetto delle
strade fuori delle porte faccia la pianta di ciascuna delle dette strade
con descriverci li casali et castelli et anco le dette strade fino alle
quaranta miglia”. Il risultato di questa fatica fu la realizzazione delle
già citate piante delle strade consolari, impiegate come frontespizio
delle cartelle dove si conservano le piante del Catasto Alessandrino.
L’agrimensore, così come il notaio, poteva operare per uno specifico
committente, dal quale riceveva un incarico per eseguire un certo
numero di lavori. Fra i principali committenti erano i grandi enti
religiosi proprietari di tenute dell’Agro, come l’ospedale del Salvatore ad Sancta Sanctorum, per il quale lavoravano Bernardino Calamo - che fu attivo fra il 1604 e il 1636 - e suo figlio Francesco, uno
dei maggiori artefici delle carte dell’Alessandrino. Bernardino, in
particolare, eseguì nel 1630, al servizio dell’ospedale del Salvatore,
una serie di copie di piante tratte dal Libro dei casali del 159936. In
questo caso, gli agrimensori erano regolarmente stipendiati dagli
enti proprietari per la redazione delle piante dei casali, come risulta
dai registri di pagamenti. Per esempio, ancora a favore di Bernardino Calamo risulta un pagamento di dieci scudi “di buon conto
per le piante che doverà fare delli casali del Reverendissimo Capitolo” di S. Maria Maggiore il 25 marzo 163537. E i medesimi Bernardino e Francesco figurano registrati, fin dai primissimi anni del
’600, fra le fedi conservate presso l’Archivio del Capitolo di S. Maria
Maggiore, in qualità di “misuratori delle terre seminate, dei casali
e delle pediche”. L’assunzione della carica di agrimensore alle dipendenze di uno specifico ente non implicava tuttavia solo il compito di redigere piante dei possessi, ma investiva tutte le competenze
sopra elencate. Fabrizio Sperandio nel 1773 si intitolava “perito agrimensore dell’Illustrissimo e Reverendissimo Capitolo di S. Maria
Maggiore” e a lui, quindi, spettava il compito di effettuare regolari
sopralluoghi all’interno dei possedimenti dell’ente per la ricognizione dei fossi, per la misura di superficie delle erbe da acquistare
o cedere in affitto, nonché la dichiarazione giurata delle misure di
superficie dei beni fondiari38. Un modello di estrema ‘fedeltà’ nei
confronti di un unico agrimensore viene dalla famiglia Borghese,
rilevantissima proprietaria di casali nell’Agro, che ricorse esclusivamente al servizio di giusto Quaranta per la firma delle piante delle
proprie tenute destinate alla consegna del 1660.
Un ultimo esempio, ben documentato grazie a un recente studio
di Alexis gauvain, viene dall’amministrazione patrimoniale del Capitolo di San Pietro39. I verbali delle adunanze e i censuali dei beni
testimoniano che Bartolomeo grippa, detto anche Grippetta, e girolamo Valperga, altro importante misuratore e capomastro, autori
della misura e della pianta di Boccea e di altre piante non conservate, furono i primi agrimensori al servizio stabile del Capitolo. L’11
settembre 1595, per la prima volta, venne assunto dai canonici di

5. Esempio di pianta nella quale si
evidenzia la varietà delle componenti
dell’ordinamento colturale, con filari di
vigna, canneto, prato, campi a
cerealicoltura e boschetti: Archivio di
Stato di Roma, Presidenza delle Strade,
Catasto Alessandrino, 430/3 Torre San
Giovanni, particolare.

367

San Pietro un architetto con il compito di effettuare i rilievi per la
formazione di un catasto delle case, nella persona di Prospero de
Rocchi. Si tratta di un personaggio noto in quanto misuratore della
Reverenda Camera Apostolica durante i pontificati di gregorio
XIII e Sisto V. I canonici gli attribuirono un compenso di sessanta
scudi l’anno per il primo biennio e di due scudi e cinquanta al mese
per il periodo successivo, con l’impegno di completare entro due
anni le piante delle case. Egli rimase alle dipendenze di San Pietro
fino al 1604, quando fu licenziato per negligenza. Durante quel periodo, l’architetto disegnò la pianta di cinque tenute, misurò i prati
di altre due e collaborò con Francesco Torriani per realizzare la
pianta di un terreno contiguo alla chiesa di S. Balbina. Fra i nomi
più ricorrenti al servizio del Capitolo è quello di Orazio Torriani,
il quale alternò le proprie prestazioni fra questo ed altri enti, come
il monastero di S. Paolo fuori le mura e la basilica di S. Maria Maggiore, un servizio che lo vide attivo, con compiti ben distinti, sia in
veste di agrimensore sia in veste di architetto per il lungo periodo
intercorso fra il 1603 e il 1658. Il suo primo compito fu quello di
collaborare con il padre Francesco alla realizzazione della pianta
della tenuta di Porto e Isola, della quale curò il ricco apparato decorativo. La seconda fase della sua attività alle dipendenze di S. Pietro lo vide impegnato, fra il 1615 e il 1617, nel disegno delle piante
dei possessi di Castel giubileo, di Campomorto e di quelli siti nell’area suburbana fra Borgo e Trastevere. Contemporaneamente progettò un ponte sul torrente Arrone all’interno della tenuta di
Boccea. nel 1620 Torriani venne licenziato dal suo lavoro di agrimensore capitolare per assumere unicamente il ruolo di architetto,
con uno stipendio fisso di sette scudi al mese. All’età di ottanta
anni, nel 1656, i canonici ricorsero nuovamente al suo servizio,
commissionandogli le piante delle case, vigne e tenute del Capitolo
irreperibili in archivio. Fu inoltre lui che, per la conoscenza che
aveva degli edifici in questione, ebbe l’incarico di effettuare la stima
del valore dell’edificio monastico di S. Caterina in Vaticano e delle
case confinanti, destinati ad essere demoliti per far spazio al colonnato di piazza S. Pietro. Al 1658 risale la sua ultima notizia che informa della consegna al Capitolo di altre otto piante di tenute, per
le quali riscosse centocinque scudi. Queste piante costituirono il
modello per le copie che sarebbero state di lì a poco consegnate all’ufficio della Presidenza delle Strade.
nel 1638, fu la volta di Marco Antonio Qualeatti ad essere assunto
dai canonici e nel 1675 di Benedetto Drei il giovane. Il primo, impiegato con la doppia mansione di fattore e di agrimensore presso
il Capitolo, realizzò nel 1639 la pianta del casale Civitella. Egli risulta alle dipendenze dei canonici fino al ’43, ma la sua carriera
proseguì per molto tempo ancora, al servizio di vari enti e famiglie,
dedicata sia alla cartografia sia all’amministrazione degli affitti. Il
368

Susanna Passigli

secondo si firmava architetto del Capitolo di S. Pietro già nel 1660,
nella pianta della Pedica Cleria (430A/30)40. Infatti, fu proprio lui
che venne incaricato dagli ecclesiastici per la ‘campagna cartografica’
destinata alla consegna per la Presidenza delle Strade nel 1660. Egli
infatti realizzò ben ventuno piante, copiandole dagli originali che
si conservavano presso l’archivio del Capitolo, su un totale di venticinque tenute possedute dai canonici all’epoca. Il suo impegno
professionale fu dedicato esclusivamente al Capitolo stesso con l’ecLa costruzione del “Catasto Alessandrino” (1660). Agrimensori, geometri e periti misuratori

cezione, in tutta la sua carriera, di una sola pianta, prodotta per un
proprietario diverso.
I decreti capitolari del Capitolo testimoniano che i canonici di S.
Pietro, almeno a partire dalla fine del secolo XVI, disponevano stabilmente di un agrimensore alle proprie dipendenze. Se questi moriva o veniva allontanato per qualsiasi motivo, ne veniva subito
assunto un sostituto. Ma la rilevazione di un buon numero di tenute fu svolta anche dai fattori del Capitolo, in quanto la loro espe-

6 Archivio di Stato di Roma, Presidenza
delle Strade, Catasto Alessandrino,
432/39 Vallerano, pianta realizzata
dall’agrimensore Marco Antonio
Qualeatti.
7-8. Esempi di piante del ‘tipo Borrella’:
Archivio di Stato di Roma, Presidenza
delle Strade, Catasto Alessandrino,
432/21 Marrone e 432/60 Porcigliano.

369

9a-b, 10a-b. Esempi di fabbricati
realizzati con forma geometrica, con tutta
probabilità non mediante disegno dal vero
ma a tavolino: Archivio di Stato di
Roma, Presidenza delle Strade, Catasto
Alessandrino, 430/25 Torre Angela e
430/28 Tor Tre Teste, particolari.

370

rienza li portava a possedere una profonda conoscenza dei terreni
di proprietà dell’ente. Uno di essi era quel Melchiorre Carcopino,
che in più occasioni nella prima metà del secolo XVII, affiancò gli
agrimensori con lo scopo di indicare i corretti confini delle tenute
e presso la cui abitazione si trovavano conservate le piante.
I tanti esempi a disposizione mostrano che in effetti non vi fosse
alcuna formale rigidità nel rapporto fra committente e agrimensore,
quanto piuttosto una forma di discrezionalità legata alla tradizione
culturale e alle disponibilità economiche del committente. La straordinaria attività del già nominato Marco Antonio Qualeatti ne è
una dimostrazione. Di questo personaggio mancano totalmente i
dati biografici. Si sa solo che egli non fu architetto e una parziale ricostruzione della sua vita professionale è attuabile unicamente attraverso lo studio della sua produzione cartografica41. Prima del
1660, Marco Antonio Qualeatti fu autore di una pianta del casale
di Sacco Pastore dei Maffei, datata 1643, della quale egli stesso
firmò la copia per il Catasto Alessandrino (431/30). nel maggio
1656 realizzò la pianta del casale Crescenza, che sarà copiata da un
anonimo nel 1660 (433/7) e il cui originale si conserva presso l’archivio della Crescenza42. negli anni ’60 e ’61, la registrazione di alcuni pagamenti testimonia la sua attività per il Capitolo di S. Maria
Maggiore, per conto del quale il Qualeatti riscuoteva gli affitti dei

casali agricoli43. Ma soprattutto stupisce scoprire che, fra il mese di
febbraio e quello di maggio 1660, Qualeatti firmò ben trentaquattro
originali e due copie di piante per il Catasto Alessandrino44. In base
all’analisi delle caratteristiche dei singoli prodotti cartografici realizzata da Jean Coste, si può affermare che solo le prime cinque furono effettivamente realizzate da lui in persona. Egli infatti dovette
ricorrere ad altri laboratori per compiere una tale mole di lavoro,
laboratori dove furono realizzati anche i due originali anteriori al
Catasto Alessandrino. Queste carte infatti presentano un analogo
fondo giallo, ma diversi caratteri stilistici, quali la grafia dei nomi
dei confinanti, la scala metrica e il disegno dei fabbricati, le accomunano a quelle elaborate nella bottega del contemporaneo agrimensore Eliseo Vannucci sulla quale ci si soffermerà fra breve.
L’ordine della consegna delle piante fa dedurre che il lavoro non
sia stato completato secondo criteri topografici e neppure secondo
quello dei proprietari. Va inoltre tenuto presente che la data dell’editto, il 31 gennaio 1660, fa escludere che Marco Antonio Qualeatti abbia misurato sul terreno da solo la superficie di otto tenute
in meno di tre settimane. A questo periodo appartengono anche
le cinque carte che Marco Antonio Qualeatti firmò per il Capitolo
di Santa Maria Maggiore, senza data ma registrate insieme il 17
aprile e con le stesse caratteristiche della bottega Vannucci, per
quanto riguarda il disegno degli edifici45. Si noti che il 30 aprile,
proprio a favore di quest’ultimo, risulta un pagamento di dieci scudi
effettuato dal Capitolo come remunerazione per il lavoro di ricopiatura di cinque piante. Dunque, il lavoro per il quale Vannucci
venne pagato consisteva nella confezione delle piante nella loro stesura definitiva, realizzata a partire dalla misura o dal rilievo effettuati
da Marco Antonio Qualeatti, secondo quanto risulta nella legenda
delle carte “misurata da me infrascritto”. In conclusione, delle trentasei piante che Marco Antonio Qualeatti firmò in tre mesi, con
tutta probabilità, solo le prime cinque per i Maddaleni e per i Mattei, furono frutto esclusivo del suo lavoro sino alla messa in pulito
(fig. 6). già a partire dalla fine di febbraio egli sembrò ricorrere alla
bottega di Eliseo Vannucci per completare le carte per i Capizucchi
e quella per i Muti. Questa collaborazione proseguì ancora nei mesi
di marzo, aprile e maggio, quando risultano attivi per lui altri dipendenti della bottega Vannucci, oltre a un disegnatore speciale
per la grande carta del territorio di Decima46.
La delineata fisionomia di Marco Antonio Qualeatti esemplifica il
caso di un agrimensore non architetto, figure destinate a rimanere
in gran parte ignote47. Altre sono invece dichiarate architetti e, in
quanto tali, hanno lasciato il proprio nome legato alla realizzazione
di edifici di rilievo o figurano nei repertori, come Camillo Arcucci,
Antonio del grande, Vincenzo della greca, Francesco Peperelli e
gli Architetti dei Maestri di Strade Francesco Contini, Domenico
Susanna Passigli

Legendre, giovanni Pietro Moraldi e Paolo Picchetti48.
Considerato successore del Borromini presso l’oratorio dei Filippini
e nella fabbrica della chiesa di S. Maria in Agone, Camillo Arcucci
ha lasciato ampie tracce di sé nella progettazione di edifici e facciate
della Roma barocca49. La data della sua nascita è posta intorno agli
anni Venti del ’600 e la sua provenienza è Sigillo, nella diocesi di
nocera in Umbria, dove si trovava la chiesa di S. Anna alla quale
doveva essere talmente affezionato da destinarvi denari per il restauro delle pitture e degli stucchi “con memoria che sia stata restaurata da me e con la mia arme”. notizie circa la sua attività
scaturiscono da quelle relative a giuseppe Brusati Arcucci, che gli
successe nel 1667 in qualità di architetto, sia presso il monastero di
S. Maria in Campo Marzio sia alle dipendenze di alcuni importanti
committenti, quali Cristina di Svezia e Orazio Spada. Durante il
servizio presso le monache di Campo Marzio, insieme alle opere di
manutenzione degli edifici urbani del monastero, la sua competenza venne utilizzata anche per l’amministrazione dei beni rurali.
Recano la data del 1643 i due rilievi dei casali di Torre Rossa e di
Ponte di nona, che vennero successivamente utilizzati per realizzarne copie nel 1660 (429/12 e 430/17). Dieci anni dopo firmò la
pianta di grottoni per la cappella dei SS. Quattro in S. Pietro che
verrà poi riprodotta per la consegna all’Ufficio della Presidenza
delle Strade (432/50). La sua morte avvenne fra il 4 e il 6 febbraio
1667, date rispettivamente del testamento e della sua apertura in
presenza degli eredi, il figlio adottivo giuseppe Brusati Arcucci e la
madre Caterina Petrelli50. La sua abitazione romana si trovava nel
rione S. Eustachio “in via qua a platea nuncupata Furnariorum tendit ad Cesarinos”, di fronte alla chiesa di S. giuliano dei Fiamminghi nella attuale via del Sudario. La sua figura è messa vivacemente
in luce nel testamento e nell’inventario dei suoi beni, compilato a
pochi giorni dalla sua precoce scomparsa. Vi compaiono nomi di
artisti che lo dipingono come ben introdotto nella cultura artistica
contemporanea: l’opera di Mastro Luca Berettini è presa come modello per una monumento funebre che voleva fosse scolpito nella
chiesa di S. Agostino in onore del defunto zio, il Padre generale
dell’Ordine Agostiniano Fulgenzio Petrelli, mentre a Pietro Berettini da Cortona veniva attribuito l’incarico di eseguire il suo ritratto
per la chiesa di S. Luca dei Pittori, Scultori e Architetti. Fra le opere
in suo possesso, opere che egli desiderò destinare al duca girolamo
Mattei, erano un disegno di Andrea Sacchi e un ritratto di donna
del guercino. nella sua casa, composta da due piani ciascuno con
sala e tre camere, piano terreno, stalla e rimessa fornita di carrozza,
trovavano posto una spinetta, un graviorgano – organo a tavolino
diffuso nel ’600 romano - con un cembalo, numerosi quadri e quadretti, disegni e stampe delle facciate delle chiese di S. Andrea della
Valle, S. Pietro e Chiesa nuova, una testa di marmo e numerose
La costruzione del “Catasto Alessandrino” (1660). Agrimensori, geometri e periti misuratori

statuette, statue di gesso, sgabelli di legno per sostenere le statue,
varie raccolte di disegni e schizzi a mano, librerie con le opere a
stampa dello zio agostiniano Petrelli. Egli lasciava al Brusati “li stigli,
le scritture e libri della mia professione di Architetto acciò possi
con suo vantaggio esercitare il suo talento”. Fra questi si contano
diversi manuali di geometria, disegno e architettura, volumi che
non è infrequente reperire nelle biblioteche dei principali architetti
romani dell’epoca51. L’inventario elenca infine gli strumenti del mestiere conservati presso la sua abitazione:
una scatola con dentro compassi toccalapis, squadre tiralinee e righe
d’ottone diverse, un compasso d’ottone di palmi uno e mezzo, un
istrumento mattematico d’ottone detto il radio latino, un altro istrumento mattematico d’ottone con squadra zoppa e traguardi da livellare e levar piante, una scatola con dentro un altro istrumento
di matematica di squadra da levar piante con sua bussola.
Ciò induce a ritenere che Arcucci non fosse titolare di una bottega,
ma che lavorasse presso la propria abitazione o presso la