Buddha Shakyamuni nacque come Siddhartha

Introduzione

Questa corrente religiosa Indiana si denomina buddhismo dall'epiteto attribuito al suo fondatore: il Buddha, « lo Svegliato ». Questi, secondo la tradizione, si chiamava S iddhàrta ma dal nome del clan viene detto altresì Sàkyamuni, «l'asceta della famiglia Sà- kya ». Nacque a Kapilavastu nel Tarai e si spense a Kusinagara nel 478 a. C.; a Banaras predicò ai primi discepoli.

Buddha Shakyamuni nacque come Siddhartha Gautama, figlio del Re degli Shakya, Shuddhodhana, in un piccolo regno situato vicino ai piedi dell'Himalaya in una zona che oggi si trova nel Nepal. Il palazzo dei Shakya era situato a Kapilavastu. Shakyamuni nacque nei giardini Lumbini in una zona dove oggi c'è il villaggio di Padeira nel sud di Nepal. Secondo le Jataka, egli nacque dal fianco della madre Maya, sotto un albero nei giardini Lumbini. Sette giorni dopo la nascita, però, la madre morì all'improvviso. E, così, la sorella di Maya, Mahaprajapati, fece da matrigna al bambino.

Dopo la nascita di Siddhartha, il Re Shuddhodhana convocò un saggio-veggente al suo palazzo, come riferito da Ashvahogosha nella Buddhacàrita, dal nome Asita. Il Re chiese

ad Asita di osservare il bambino appena nato. Visto il bambino, Asita disse al Rè che il bambino sarebbe diventato un grande guerriero o un re, oppure un uomo che avrebbe rinunziato al mondo e sarebbe diventato un Buddha.

Il Re, ritenendo che il suo figlio sarebbe potuto diventare il prossimo re, confinò Siddhartha nel palazzo di Kapilavastu, fornendogli divertimenti, articoli di lusso e tutte le altre necessità. Il Re contornò il giovane principe, inoltre, di tante giovani ragazze assai belle ed altri giovani di compagnia, belli e piena di salute. Il Re temeva che se il principe avesse scoperto la vera realtà del mondo, avrebbe cercato una soluzione alle sofferenze,

ed avrebbe rinunciato il trono. Mentre viveva ancora nel palazzo, Siddhartha si sposò con una bellissima ragazza che si

chiamava Yashodhara, la quale generò un figlio che si chiamava Rahula. Anche se il giovane Siddhartha aveva tutto che voleva o di cui avesse bisogno, man mano crebbe il desiderio di avventurarsi fuori Abbandonando la vita da principe, Siddhartha lasciò il palazzo di nuovo, per studiare e conoscere a fondo la meditazione yogica, ed altre pratiche austere. Osservò queste pratiche per un periodo di 6 anni, e superò in questo anche i suoi maestri . Però, alla fine, Siddhartha rifiutò tutte queste austerità. Si accorse che queste pratiche erano inutili e non potevano portare una persona alla vera liberazione o all'illuminazione. Ma che anzi lo rendevano debole; decise allora , a differenza di altri ascetici, di accettare e mangiare una scodella di riso e latte, offerta dalla fanciulla Sujata. Dopo aver mangiato si riprese,e con una determinazione rinnovata viaggiò verso la cittadina di Gaya

Siddhàrtha ,durante il tragitto, si ricordò che, una volta, prima di lasciare il palazzo, aveva sperimentato uno stato meditativo spontaneo alla vista di un contadino intento ad arare un campo. Notando quanti fossero, nel solco dell'aratro, gli insetti e

i vermi uccisi e vedendo la fatica dell'uomo, egli era stato sommerso dalla i vermi uccisi e vedendo la fatica dell'uomo, egli era stato sommerso dalla

Vedendo davanti a sé un albero di pipalo, sistemò al suolo uno strato di erba kusha offertagli da un contadino e fece voto di restare a meditare ai piedi di quell'albero fino

a raggiungere l'Illu-minazione. Sedutosi a gambe incrociate sul "trono di diamante" (sans. vajràsana), rimase così, in meditazione, per quarantanove giorni, senza muoversi né mangiare.

Poco prima di conseguire l'Illuminazione perfetta, il Beato subì i violenti attacchi di Màra, "il Maligno", e condusse la sua ultima battaglia interiore contro l'attaccamento, la collera, l'ignoranza e la moltitudine delle passioni simboleggiate dall'esercito di Màra. Questi gli apparve inizialmente sotto l'aspetto di Kàma, il dio della sensualità, armato di frecce e accompagnato da tre desiderabili giovinette. Ma il Siddhàrtha restò imperturbabile.

Màra fece appello, allora, al senso del dovere del principe: «Alzati, o guerriero, segui il Dharma della tua casta, rinuncia al Dharma della liberazione! Non si addice a un principe vivere come un mendi cantei», ma in vano. Furioso, il Maligno scatenò contro il futuro Buddha le sue orride truppe, composte da mostri deformi d'ogni genere: si levarono venti di tempesta, gnomi grotteschi vestiti di serpenti e demoni dal volto butterato e dal ventre enorme gli scagliarono addosso asce, frecce, massi e tizzoni ardenti grandi come montagne. Ma questi proiettili si fermavano a mezz'aria, trasformati in una pioggia di fiori grazie alla meditazione del Bodhisattva.

Alla fine Màra esclamò: «Siddhàrtha, alzati da quel trono, che mi appartiene!». Il Bodhisattva rispose: «Màra, tu non hai agito né per la conoscenza, né per il bene del mondo né per l'Illumina-zione. Questo trono non ti appartiene, è mio». «Ma chi potrà essere testimone della tua Illumina-zione?» replicò Màra. Allora il Buddha toccò la terra, dicendo: «La terra mi è testimone». Essa tremò, e apparve la dea della terra: «Ne sono testimone!» disse. Màra fu sconfitto, e il suo esercito indietreggiò e scomparve.

Il conseguimento della piena Illuminazione.Dopo la vittoria su Màra, il Bodhisattva ritornò in quello stato meditativo del primo dhyàna provato in passato, poi, gradualmente, raggiunse il quarto dhyàna, uno stato di chiara e pura equanimità. In tre notti di veglia, sviluppò i tre tipi di cono scenza sovramondana:

Durante la prima veglia si ricordò di tutte le sue vite precedenti.Durante la seconda, vide il karma degli esseri senzienti e il ciclico succedersi delle loro rinascite nella sofferenza. Durante la terza, poco prima del levar del sole, realizzò la natura impermanente e condizio nata di tutti i fenomeni e conseguì la piena Illuminazione, il perfetto Risveglio di un buddha,che descrisse con queste semplici parole «Profondo, quieto, privo di complessità, chiara luce incomposta».Per una settimana il Buddha contemplò il senso della sua scoperta. Scoppiò un gran temporale e Mucilinda, re dei nàga, emerse dalla terra con i suoi sudditi, avvolse il corpo del Buddha fra le sue spire e, per proteggerlo, gli allargò sulla testa il proprio cappuccio.

Dopo raggiunto la liberazione dalle sofferenze del ciclo eterno di vita e morte, Sakyamuni provò una gioia enorme. Nello stesso tempo, però, volle raccontare a tutti la sua scoperta, così che anche loro potessero godere gli stessi benefici della sua illuminazione. Comprese che sarebbe stato molto difficile spiegare questa scoperta alla gente e renderla comprensibile, ma intuì che era sua la grande responsabilità d'indicare la via per essere salvati da "duhkha" (sofferenza) ed entrare nel reame della Buddhità.

Il primo sermone del Buddha Sakyamuni fu quando predicò ai 5 ascetici con cui aveva iniziato le varie austerità. Durante questo sermone, il Buddha insegnò loro le 4 Nobili Verità seguite dalla Via Ottuplice sentiero

1) Duhkha: "esiste la sofferenza esistenziale". Nella vita dell'Uomo è insita una sofferenza di tipo esistenziale: essa affligge l'Uomo a motivo dell'impermanenza della situazione esistenziale che lo accompagna dalla nascita e per effetto della sua nascita immersa nel "samsara". Questa sofferenza esistenziale si rivela ed è percepita non solo quando si constata l'ineluttabilità di malattia, vecchiaia

e morte, ma anche quando si è costretti al contatto con ciò che non si ama come, ad esempio, contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi che ci dispiacciono. Ma non solo in questi casi: la sofferenza esistenziale si rivela ed è percepita anche quando si è costretti alla separazione da ciò che si ama, come quando uno è privato di visioni, suoni, odori, sapori o sensazioni tattili desiderabili, gradevoli, attraenti, oppure come quando uno non riesce ad ottenere contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi che producono il suo bene, il suo benessere, il suo agio, la sua libertà dalla schiavitù, od infine quando uno debba subire la forzata separazione da madre, padre, fratelli, sorelle o da amici, compagni, parenti amati. La frustrazione dei desideri è una delle più usuali percezioni del "duhkha", della cosiddetta "sofferenza esistenziale". Più in generale, la constatazione che viene fatta nella "Prima Nobile Verità" è che esiste nella vita dell'Uomo una sofferenza esistenziale associata all'impermanenza di tutte le cose, al fatto che ogni cosa è destinata a finire.

2)Samudaya: "esiste un'origine della sofferenza esistenziale" La sofferenza esistenziale non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è 2)Samudaya: "esiste un'origine della sofferenza esistenziale" La sofferenza esistenziale non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è

3)Nirodha: "esiste l'emancipazione dalla sofferenza

esistenziale" Per sperimentare l'emancipazione dalla sofferenza esistenziale, occorre lasciare andare trsna, l'attaccamento alle cose e alle persone, alla scala di valori ingannevoli per cui ciò che è provvisorio è maggiormente desiderabile.

4) La Nobile Verità della Via che ci guida all'estinzione della sofferenza, la quale è la Via Ottuplice di:

1) Retto intendimento

(samma ditthi) cioè il riconoscimento delle "Quattro Nobili Verità" attraverso la loro corretta conoscenza e la conseguente loro corretta visione.

2) Retta risoluzione (samma sankappa) cioè il corretto impegno sostenuto dalla corretta intenzione nel padroneggiare il trsna (l'attaccamento al desiderio di vivere, alla brama ed all'avidità di esistere, di divenire o di liberarsi, al desiderio di affermare il proprio «sé esistente») in modo da manterene la corretta aspirazione che consegue alla corretta motivazione, al fine di non lasciarsi condizionare dalla «sete di esistere»,

3) Retta Parola (samma vaca) cioè l'assunzione della personale responsabilità delle nostre parole, ponendo attenzione nella loro scelta e ponderandole in modo che esse non producano effetti nocivi agli altri e di conseguenza a noi stessi; ciò significa anche che il nostro agire deve essere improntato al nostro parlare e corrispondere ad esso.

4) Retta Azione (samma kammanta) cioè l'azione non motivata dalla ricerca di egoistici vantaggi, svolta senza attaccamento verso i suoi frutti. È anche "l'azione che si conforma correttamente alla situazione", nel senso in cui non c'è più distinzione fra l'azione individuale e personale e l'azione del karma cosmico in relazione all'evento in cui l'agire individuale e personale si determina. In questo caso il corretto agire individuale armonizza in modo talmente perfetto il karma specifico prodotto dall'azione individuale al karma cosmico, da non consentire più che il karma individuale si distingua da quello universale e di esso viene quindi a costituire una sua intima ed indistinguibile componente. Per questo motivo la "retta azione" è anche considerata un "agire senza agire".

5) Retta Condotta di vita (samma ajiva) cioè vivere in modo equilibrato evitando gli eccessi, procurandosi un sostentamento adeguato con mezzi che non possano arrecare danno o sofferenza agli altri. Questo comporta anche la corretta padronanza delle proprie intenzioni, in modo che esse siano sempre orientate e dirette lungo la linea mediana di condotta di vita (majjhama patipada) attraverso una corretta azione (samma kammanta).

6) Retto Sforzo (samma vayama) cioè lasciare andare gli stati non salutari e coltivare quelli salutari. Significa anche confidare nella bontà della propria pratica buddhista perseverando con un corretto

ed equilibrato impegno nello sforzo, motivato dalla fede (saddhâ) che al buddhista praticante proviene dai risultati ottenuti nell'avanzamento lungo il persorso della propria personale realizzazione spirituale e nell'avanzamento verso una sempre maggiore capacità di esercitare una corretta azione (samma kammanta) nella propria pratica buddhista.;

7) Retta Consapevolezza (samma sati) cioè la capacità di mantenere la mente priva di confusione, non influenzata dalla brama e dall'attaccamento (trsna)

8) Retta pratica della meditazione (samma samadhi) cioè la capacità di mantenere il corretto atteggiamento interiore che porta alla corretta padronanza di sé stessi durante la pratica della meditazione (dhyāna).

Che Sakyàmuni sia un personaggio storico non pare possa dubitarsi, ma è altrettanto certo che nella sua biografia sono concorsi, con l'andar del tempo, molti elementi leggendari, echi e risonanze ed aspettazioni del mondo religioso che intorno ai fedeli a lui contemporanei od a lui posteriori si agitava. L'età della sua morte, della sua definitiva entrata nel nirvana, sembra debba fissarsi intorno al 478 a. C. Egli non scrisse nulla, ma molto insegnò: i suoi discorsi vennero raccolti e tramandati dai discepoli. Questa trasmissione orale ha naturalmente grandi svantaggi: è soggetta a reticenze, aggiunte ed interpolazioni che non c'è modo di controllare. Tanto più che dissensi e ostilità contro il maestro non mancarono neppure quando egli era vivente e più accesi si fecero subito dopo la sua morte. Ma anche grandi vantaggi.non vi sono infatti Papa Buddisti o professione di fede e ,sebbene durante i primi anni si siano tenuti alcuni concili ,non vi è mai stato un tentativo di imporre un uniformità dottrinale all’intero mondo monastico per non parlare di quello laico.

Nella sua secolare vitalità il buddhismo quindi si evolve e modifica: si moltiplica in indirizzi che assumono il carattere di sistemi indipendenti: restano inalterati certi schemi, ma il senso che ad essi si attribuisce è diverso da scuola a scuola, da tempo a tempo.

Due sono le correnti principali del Buddismo : dei Realizzatori Solitari e il Mahayana

La Dottrina dei Realizzatori Solitari

L'insegnamento del Buddha, nelle sue linee generali, è semplicissimo. Tutte le cose interne

ed esterne, cioè il nostro insieme psicofisico e la realtà che ci circonda, sono impermanenti - un susseguirsi di punti-istanti che danno l'illusione della continuità - e proprio perché impermanenti, dolorose. Questi punti-istanti si condizionano l'un l'altro .

Il buddhismo, nella sua primitiva formulazione, aveva sostenuto, a differenza delle Upanisad, del sàmkhya, del jainismo, che non esiste un io permanente, un atman, un jiva, un purusa; ma non per questo sottraeva l'uomo alla responsabilità del karma, al peso delle proprie azioni. Ciò che noi compiamo fruttifica; ogni pensiero, primo motore dell'azione, racchiude in sé l'esperienza passata e si proietta, così carico, nel pensiero seguente; la nostra personalità si riduce ad un fluire perenne di elementi (dharma) in continuo moto condizionato; questo moto è dolore;

Non tutta la realtà si esaurisce tuttavia nel dolore. Il buddhismo non è pessimista e il dolore, l'esistenza fenomenica, il samsara, può essere superato. Il superamento delle cause essenziali che lo determinano, l'ignoranza e la brama, porta automaticamente con sé la cessazione del loro effetto e la manifestazione di una nuova dimensione della realtà, chiamata con un termine famoso, che significa «estinzione», nirvana. La produzione di un nuovo karman e quindi la continuazione dell'esistenza, la serie delle nascite e delle morti, dipende dalla brama (tanna, trsnà). L'estinzione della brama porta con sé la non produzione di altro karman. La cessazione del dolore e la conseguente manifestazione del nirvana rappresentano il fine supremo della dottrina buddhista. Il metodo, il cammino che conduce a questa cessazione, Il metodo, il cammino che conduce a questa cessazione, forma come vedremo l'oggetto della quarta nobile verità, la verità della via (magga, marga,) che porta alla cessazione del dolore. Il nirvana è il piano del non condizionato, del non coeffettuato (asamskrta,).

Dice il Beato:

“ Due piani di realtà (dhatu) esistono, o Ananda, quello coeffettuato e quello non coeffettuato. Questa è la cosa più alta, la cosa più eccellente, cioè a dire la pacificazione di tutti i coefficienti, la liberazione da ogni forma di esistenza, la

distruzione, la soppressione, la cessazione della brama, il nirvana ”

nirvana è l'unica cosa che non fa parte del meccanismo della coproduzione condizionata.

“Esiste un non-nato, un non-prodotto, un non-fatto, un noncondizionato; se non esistesse un non-nato non vi sarebbe via di uscita per ciò che è nato; ma, essendoci un non-nato, v'è via d'uscita per ciò che è nato, prodotto, fatto, condizionato.”

Nella misura che è di là da ogni esistere condizionato, il nirvana si sottrae, in realtà, a ogni definizione. Di esso non si può dire né che è un annichilamelo né che è una forma di esistenza. L'unico modo di indicarlo è quello di attribuirgli caratteri contrari a quelli dell'esistenza fenomenica. Il nirvana, in questo senso, è immortale, permanente, stabile, senza fine, incontaminato, è riposo, pace, sicurezza e via dicendo. Il nirvana si presenta in due modi diversi, secondo che il Santo (arahant, arhant) che lo ha raggiunto sia ancora in vita o sia morto. Nel primo caso, il Santo ha soppresso in sé ogni forma di brama e quindi elimina ogni impulso karmico, fonte di future esistenze. Questa eliminazione non cancella però gli elementi della sua esistenza attuale, cioè gli aggregati. Questi sono determinati dalle azioni commesse in passato e ora in via di fruttificazione, senza possibilità di arresto fino alla morte. Il corpo del Santo continua ad esistere e a obbedire al meccanismo della coproduzione condizionata, nonostante la brama e l'igno- ranza, fonte di nuovo karman, siano state recise alla radice. Questa forma di nirvana è tecnicamente chiamata ti sopadhisesanirvàna, cioè nirvana fornito di resto. Dopo la morte il Santo raggiunge il supremo nirvana, il nirvana.

Come abbiamo visto il Buddismo suppone che lo svolgimento della vita corrisponda ad un processo Karmico, il cui centro e motore è la volontà umana: la vita è divenire, il divenire per presupposto è dolore. Bisogna conoscere questo processo per provocarne l'arresto. Come si vede questa legge ha valore soprattutto psicologico

ed etico.

Per il Buddismo il vero problema è l’attaccamento al se dell’individuo . Pertanto uno dei principali insegnamenti del Buddha fu appunto l’assenza di un se.

L'individuo così come l’intero universo ,secondo il Buddismo, è risultano dei seguenti elementi(dharma)

1) La terra, 2)

L’acqua 3)

Il fuoco 4)

L’aria 5)

Il vijnanà (la mente ) , il più sottile di tutti è l'elemento cosciente (vijnanà) correlato dell'etere: Il

meccanismo della liberazione si incentra tutto in questo elemento intelligente e volitivo (vijnanà), il motore responsabile; le azioni umane impure toccano il principio cosciente, lo rendono impuro e perciò sono chiamate « infezioni » (klesa), la mente impura suscita e stimola nuovo karma, onde si svolge il ciclo samsarico. Le azioni pure rendono il vijnanà immoto; le forze di proiezione karmica che ne derivano vengono ad essere meccanismo della liberazione si incentra tutto in questo elemento intelligente e volitivo (vijnanà), il motore responsabile; le azioni umane impure toccano il principio cosciente, lo rendono impuro e perciò sono chiamate « infezioni » (klesa), la mente impura suscita e stimola nuovo karma, onde si svolge il ciclo samsarico. Le azioni pure rendono il vijnanà immoto; le forze di proiezione karmica che ne derivano vengono ad essere

La letteratura canonica specificherà ancor meglio che non esiste un io. La persona umana è un composto di cinque costituenti (skandha): corporeità (rùpa), percezione (vedano), sensazione (samino),

Il divenire continuo degli aggregati è regolato da un meccanismo rigoroso, che non patisce eccezioni, basato sul karman (pali kamma), «azione» o «atto». Ogni azione, buona o cattiva, fatta consapevolmente, produce un effetto o frutto, che maturerà fatalmente, quando se ne presenteranno le condizioni favorevoli, in questa vita o in esistenze future, non importa quanto distanti nel tempo e nello spazio. «Le nostre azioni non periscono neanche in centinaia delle migliaia di ere cosmiche, ma giunto il momento e l'insieme delle

condizioni favorevoli, daranno un frutto per gli esseri corporei.» 9 La sorte che mi è stata data in questa vita, se sono uomo, pianta o animale, essere infernale, spirito o divinità è

dunque il frutto di azioni precedenti, cui nessuno può sfuggire. Il karman appartiene alla natura delle cose (clharmatà,), la quale, come dicono i dottori indiani, è inquestionabile, è una legge naturale, indipendente, nel suo svolgersi, dai nostri concetti di giustizia morale, di ricompensa o punizione. Un'azione buona matura, per natura, in un frutto buono, un'azione cattiva in un frutto cattivo. Il karman, l'azione, non è, secondo i buddhisti, l'azione esterna, materiale, ma l'intenzione o volizione che determina l'azione stessa. «L'atto, o monaci, io dico che è la volizione (cetana); infatti, poi che ha voluto, uno fa l'azione col corpo, con la parola e con la mente.» L'azione porta dunque con sé un risultato, un frutto di retribuzione (vipaka) soltanto se è stata prodotta volontariamente ed è quindi qualificabile come buona o cattiva. Il frutto, da parte sua, è una conseguenza, per così dire, automatica, involontaria, dell'azione cosciente, eticamente indifferente (avyakrta), costituita necessariamente

Compresa la legge Karmika e le cause del dolore in quale modo è possibile superare il dolore. ?

La via, il cammino che porta al superamento del dolore, è, tutto nel sermone di Benares,: il Nobile ottuplice sentiero. Le otto parti che lo costituiscono sono, per antica tradizione, divise in tre diversi gruppi, cioè conoscitivo o noetico, morale e contemplativo. Il primo gruppo, quello conoscitivo, è costituito dai primi due membri, cioè retta visione e retto pensiero. Il gruppo morale comprende la retta parola, la retta azione ed il retto modo di vita. Gli ultimi tre membri, il retto sforzo, la retta attenzione e il retto raccoglimento, formano il gruppo contemplativo. L'osservanza delle prescrizioni di carattere etico costituisce il primo e indispensabile gradino della vita religiosa (brah-macarya), ma essa, da sola, è di per sé insufficiente a mandare a effetto la cessazione del dolore. Questa richiede, da parte del discepolo, la pratica dei tre elementi contemplativi del cammino, i quali purificano la mente e la preparano La via, il cammino che porta al superamento del dolore, è, tutto nel sermone di Benares,: il Nobile ottuplice sentiero. Le otto parti che lo costituiscono sono, per antica tradizione, divise in tre diversi gruppi, cioè conoscitivo o noetico, morale e contemplativo. Il primo gruppo, quello conoscitivo, è costituito dai primi due membri, cioè retta visione e retto pensiero. Il gruppo morale comprende la retta parola, la retta azione ed il retto modo di vita. Gli ultimi tre membri, il retto sforzo, la retta attenzione e il retto raccoglimento, formano il gruppo contemplativo. L'osservanza delle prescrizioni di carattere etico costituisce il primo e indispensabile gradino della vita religiosa (brah-macarya), ma essa, da sola, è di per sé insufficiente a mandare a effetto la cessazione del dolore. Questa richiede, da parte del discepolo, la pratica dei tre elementi contemplativi del cammino, i quali purificano la mente e la preparano

Gli stadi iniziali della tecnica contemplativa buddhista cadono sotto il settimo membro dell'ottuplice sentiero, cioè la retta attenzione. Il discepolo deve diventare perfettamente consapevole di tutti gli atti e movimenti del corpo, delle sue sensazioni, delle sue percezioni, dei vari moti

dell'animo, buoni o cattivi. Questa attenzione, vigilanza e consapevolezza, dev'essere insomma sempre presente e attiva circa ogni cosa del mondo esterno o inferiore. «Il Beato ha dichiarato che la consapevolezza è sempre utile. Perché? Ma perché la mente ha, per rifugio, la consapevolezza, la quale le da protezione. Senza consapevolezza, la mente non può essere né favorita né repressa.» Questa meditazione preliminare, basata sulla consapevolezza, si accompagna, secondo uno dei testi più antichi e importanti delle pratiche contemplative del buddhismo, il «Discorso del metodo della presenza mentale» (Satipatthànasutta,), alla riflessione sul carattere impermanente del corpo e sulle sue varie impurità, sugli elementi materiali che lo compongono e sui vari stati di decomposizione ecc., che lo aspettano dopo la morte. La presa di possesso del meccanismo che regola il corpo, le sensazioni e il pensiero, analizzati e penetrati nei loro più minuti particolari, nel loro nascere e perire, dal di- scepolo sempre vigile ed attento, è presupposto essenziale alla pratica delle cosiddette quattro contemplazioni (jhàna, dhyàna) o stati di trance, che fanno parte dell'ottavo ele- mento del nobile cammino, vale a dire il samàdhi, raccoglimento o concentrazione, fissazione del pensiero in un punto, di là da ogni distrazione (viksepa).

Per riassumere i quattro Dhyana

1. Il primo dhyāna è una condizione di soddisfazione dovuta alla riflessione e all'investigazione.

2. Il secondo stadio è la tranquillità senza riflessione nell'investigazione.

3. Il terzo porta all'assenza di ogni condizionamento proveniente dal desiderio che sta alla base della sofferenza, premessa questa indispensabile al conseguimento del successivo stadio.

4. Il quarto consiste nel nirvana, cioè nel superamento della sofferenza esistenziale attraverso il "pensiero-senza-pensiero" e l' «agire-senza-agire» conseguenti alla realizzazione del perfetto «risveglio spirituale buddhista», la cosiddetta "buddhità", vale a dire la «qualità di Buddha» presente in ogni essere umano, talvolta anche definita con il termine «vacuità».

La comprensione di queste quattro meditazioni richiede qualche accenno alla cosmologia buddhista. I mondi sono infiniti in uno spazio infinito. In questa infinità che appartiene sempre al divenire e che, come s'è visto, è senza principio, il buddhismo distingue tre piani, sfere o regioni, via via superiori. Il piano esistenziale in cui noi ci troviamo è chiamato «la regione del desiderio» Dharmadhatu , popolata da cinque specie di esseri o pseudoindivi- dui: creature infernali, animali, spiriti famelici, uomini (in talune liste figurano anche gitanti-dèi, asura), più i cosiddetti dèi del desiderio (kàmadeva), di cui sono sei categorie. Alla seconda sfera, chiamata «regione della forma» (rùpadhàtu), danno accesso appunto le quattro meditazioni di cui si è parlato. Questa regione è popolata da quattro specie di dèi, divisi in diciassette categorìe. Più in là di essa, c'è la «sfera della non forma» farùpadhàtu^ che si divide a sua volta in quattro parti. U accesso a essa si deve a quattro (o cinque) specie di raccoglimenti (samà-patti), differenti e superiori alle meditazioni anzidette, corrispondenti a quattro regioni chiamate Infinità dello spazio, Infinità della coscienza, Infinità del niente e Assenza d'ogni nozione e non nozione, detta anche «som- mità del divenire» (bhavagga, bhavagra) . Le diverse categorìe di dèi che popolano il piano della Forma e della Non forma sono in una condizione di felicità. Anch'essi, tuttavia, fanno parte del divenire e, esauritisi i meriti spirituali per cui sono diventati dèi, saranno di nuovo travolti dal ciclo del divenire, di rinascita in rinascita, sicché il loro stato di felicità è puramente transitorio.

Le Scritture Canoniche

Le scritture del veicolo Hinayana sono

1. Il Suttapitaka (sanscr. Sùtrapitaka) vale a dire i sùtra che contengono la parola del Buddha, i suoi discorsi ed i suoi insegnamenti; 2. Il Vinayapitaka, il Vinaya, regole monastiche che prescrivono quello che un monaco deve fare o deve evitare; 3. Abhidhammapitaka (sancr. Abhidharmapitaka), Abhi-dharma, la sezione dottrinale probabilmente più tarda.

Le Dottrina Mahayana

Introduzione

La seconda corrente presente nel Buddismo è il Mahayana . " Grande veicolo" sorta nel primo secolo dopo cristo.

Questo termine designa l'insieme degli insegnamenti buddhisti fondati sui sutra che proclamano il primato dell'ideale del bodhisattva e della compassione universale sulla liberazione, la duplice vacuità del sé individuale e dei fenomeni esterni, la dottrina dei tre corpi dei buddha (sans. trikàya) e la presenza di innumerevoli buddha e bodhisattva pronti ad aiutare gli esseri senzienti immersi nella confusione e nelle sofferenze del samsàra. Nella classificazione indo-tibetana questi sutra sono considerati provenienti dal secondo e dal terzo avvio della ruota del Dharma, diversamente dai sutra dell'Hìnayana, che costituiscono gli insegnamenti del primo avvio della ruota. In tal senso il Mahàyàna si distingue nettamente dall'Hinayàna, o piccolo veicolo, che riconosce soltanto i sutra detti del primo avvio della ruota ruota e confuta tutti i punti suddetti.

Riguardo alla disciplina monastica, il Mahayana adotta le regole del Vinaya proprie del l'Hìnayàna, ma estende la possibilità dell'emancipazione spirituale non limitandola più alla sola vita monastica e stabilisce un proprio codice etico, quello dei bodhisattva .

Mentre L’Hinayana concepisce Il Buddha Shakyamuni come un uomo che ha conseguito la liberazione durante la sua vita terrena .il Mahayana lo considera come una manifestazione terrena di un essere già pienamente illuminato ; un essere che ha conseguito la Buddhità nella più alta delle terre pure,il più alto pianeta dell’esistenza : Akanistha. situato sulla cima del regno della forma il Rupadhatu.

Il Buddha ,secondo il Mahayana ,avrebbe soltanto finto di ottenere l'illuminazione sotto l'albero della bodhi, avrebbe soltanto finto di entrare nel nirvana; avrebbe soltanto finto di insegnare che il nirvana è la cessazione della mente e del corpo. I sùtra mahàyàna cercavano chiaramente di ridefinire la persona del Buddha e la struttura del suo sentiero. Ma tale revisione doveva tener conto della tradizione più antica, di quel che il Buddha aveva già insegnato, cioè il sentiero dell'arhat culminante nel nirvana.

Ma a quale scopo ? Il Buddha espone il proprio insegnamento spinto da una infinita compassione per gli

esseri senzienti, e tutti i suoi insegnamenti sono esattamente commisurati al livello di coloro che sono destinati a riceverli: qualunque loro adattamento, a patto che sia animato dalla compassione e dalla sapienza del Bodhisattva, e che sia adatto a chi lo esseri senzienti, e tutti i suoi insegnamenti sono esattamente commisurati al livello di coloro che sono destinati a riceverli: qualunque loro adattamento, a patto che sia animato dalla compassione e dalla sapienza del Bodhisattva, e che sia adatto a chi lo

Tutto ciò viene efficacemente illustrato da un altro testo interamente dedicato all'insegnamento dell'abilità nei mezzi, testo che viene indicato col titolo abbreviato di Upayakausalya Sutra. Questo sutra contiene una serie di domande e risposte riguardanti leggendari avvenimenti della vita di Siddhàrtha, e spiega che quegli eventi non erano in realtà ciò che sembravano essere, ma avevano la più alta funzione di illustrare l'insegnamento del Buddha. Ad esempio, perché il Buddha, che era libero da qualunque impedimento karmico e onnisciente, tornò una volta a mani vuote dalla sua questua? A quanto sembra, ciò fu dovuto alla sua compassione per i monaci che, in futuro, avrebbero avuto la sorte di tornare anch'essi a mani vuote (Chang 1983: 459).

L'insegnamento dei mezzi abili è di particolare importanza in riferimento all'etica Mahàyàna, poiché tutto viene subordinato all'interesse superiore di una motivazione sinceramente compassionevole e sostenuta dalla sapienza: tutto è relativo. Abilità nei mezzi può dunque significare, per un Bodhisattva, agire in maniera contraria rispetto ai più 'ristretti' codici etici o monastici validi per gli altri. Upayakausalya Sutra rac- conta, ad esempio, come in una sua vita precedente il Buddha, pur studente di religione consacrato al celibato, abbia avuto un rapporto sessuale con una ragazza che minacciava di morire per amor suo (p. 433). Allo stesso modo, un'altra storia ben nota nei circoli Mahàyàna narra come il Buddha, in una sua vita precedente, abbia ucciso un uomo: si trattava dell'unico modo di impedirgli di uccidere 500 altre persone e di precipitare, così, nel più profondo degli inferni per un lungo periodo di tempo. Quell'atto del Bodhisattva, insomma, era motivato da una pura e semplice compassione: egli sapeva di agire contro il codice morale corrente, ma, per il suo amore verso il prossimo, era realisticamente pronto a precipitare egli stesso in un inferno. La conseguenza di ciò, ci rassicura però il sutra, fu non solo che il Bodhisattva compì un ulteriore progresso spirituale ed evitò l'inferno, ma anche che il potenziale assassino rinacque in un regno celeste.

Nel sutra del loto vi sono molte parabole che illustrano efficacemente la teoria dei mezzi abili

Si raccona ad esempio di un gruppo di viaggiatori che si misero in cammino per una lontana città, condotti da una guida esperta. Al termine di un lungo viaggio giungono a destinazione, ma solo per sentirsi dire che devono proseguire ancora, che non hanno ancora raggiunto la meta. La guida spiega che, in realtà, la città in cui hanno trascorso la notte era un'illusione, una città da lui stesso evocata per servire da tappa nel lungo cammino. Se avesse detto sin dall'inizio che la strada era così lunga e la meta così lontana, nessuno si sarebbe messo in viaggio. I viaggiatori sono coloro che cercano l'illuminazione, e la loro guida è il Buddha. Sapendo che la meta dell'illuminazione suprema, la buddhità, è molto lontana, troppo lontana per alcuni, ha inventato una meta più facile, chiamata nirvana, su cui è possibile fissare lo sguardo. Ma questo nirvana è un'illusione, non esiste, e non è la meta finale.

Oppure si racconta del Il figlio di un certo uomo, aveva lasciato la casa paterna, aveva vagato per il mondo, e si era ridotto alla più nera miseria. Nel frattempo, per contrasto, gli affari del padre si erano ben j avviati in un'altra città, e l'uomo era divenuto molto ricco. Il figlio capita un giorno nella casa del padre, e mentre egli non riconosce più né il padre né la nuova dimora, il padre lo riconosce immediatamente e manda un servo ad accoglierlo con tutti gli onori. Ma il figlio, ahimè, è terrorizzato. L'uomo capisce allora che deve abituare gradualmente il giovane all'idea di essere suo figlio e l'erede di tutte le sue ricchezze. Così, inizialmente, offre al giovane lavori molto umili e gravosi (il raggiungimento della condizione di Arhat), e affinchè egli esegua bene i suoi compiti, lo promuove a gradi sempre più elevati. Infine, comincia a comportarsi con lui come con un vero e proprio figlio e quando sta per morire, annuncia a tutti che quell'uomo è in realtà suo figlio e il suo erede naturale. Il figlio, ovviamente, è preso dalla più intensa gioia (capitolo 4). Il senso della parabola è evidente, come nel caso di tutte le buone parabole. Altrove, l'insegnamento del Buddha viene paragonato alla pioggia che scende imparzialmente su tutte le piante: ciò nonostante, questa pioggia viene assorbita e impiegata da ogni pianta secondo la sua specifica natura (capitolo 5). Tale parabola, famosa in tutta l'Asia orientale, ispirò questa deliziosa poesia giapponese di Shunzei (1114-1204):

La delicata pioggia di primavera sia là in fondo sia qui vicino sia sugli alberi sia sulle erbe tutto ugualmente tinge dovunque del suo fresco verde.

È questo, dunque, il messaggio fondamentale della prima metà del Sutra del Loto: la proclamazione degli abili mezzi del Buddha, della dottrina dell'Unico Veicolo, e della gioia assoluta con la quale i discepoli del Buddha scoprono che potranno, e in effetti dovranno, raggiungere la Perfetta Buddhità. Le mete della condizione di Arhat o di Pratyekabuddha in realtà non esistono. Già in questa prima metà del Sutra del Loto cominciano a verificarsi eventi straordinari, che adombrano l'altrettanto stupefacente messaggio della seconda parte del testo.

Nel Sutra del loto ci è poi Tra lo stupore dei convenuti, il sùtra descrive infatti la comparsa di un altro Buddha:

un Buddha proveniente dal passato, di cui nulla si sapeva, denominato Prabhùtaratna (capitolo 11). Egli si manifesta in ciclo, all'interno di uno stupa che fluttua nell'aria, e dichiara di aver tanto ammirato il Sutra del Loto da aver fatto voto di essere presente ovunque esso fosse predicato. In queste parole, possiamo scorgere il riflesso di nume- rose asserzioni. Innanzitutto, con ciò si afferma implicitamente che il Sutra del Loto non è nuovo, e che la sua predicazione fa parte del ministero di ogni Buddha. In secondo luogo, veniamo a sapere che può esistere più di un Buddha nel medesimo tempo e nel medesimo posto. In terzo luogo, ed è questa l'implicazione sicuramente più radicale, con ciò si nega uno degli insegnamenti basilari delle scuole non- Mahàyàna, vale a dire il fatto che il Buddha, dopo il suo parinirvàna (morte), o dopo il suo apparente parinirvàna, trascenda completamente ogni possibilità di richiamo e recida a tutti gli effetti ogni relazione con gli esseri che ha in tal modo un Buddha proveniente dal passato, di cui nulla si sapeva, denominato Prabhùtaratna (capitolo 11). Egli si manifesta in ciclo, all'interno di uno stupa che fluttua nell'aria, e dichiara di aver tanto ammirato il Sutra del Loto da aver fatto voto di essere presente ovunque esso fosse predicato. In queste parole, possiamo scorgere il riflesso di nume- rose asserzioni. Innanzitutto, con ciò si afferma implicitamente che il Sutra del Loto non è nuovo, e che la sua predicazione fa parte del ministero di ogni Buddha. In secondo luogo, veniamo a sapere che può esistere più di un Buddha nel medesimo tempo e nel medesimo posto. In terzo luogo, ed è questa l'implicazione sicuramente più radicale, con ciò si nega uno degli insegnamenti basilari delle scuole non- Mahàyàna, vale a dire il fatto che il Buddha, dopo il suo parinirvàna (morte), o dopo il suo apparente parinirvàna, trascenda completamente ogni possibilità di richiamo e recida a tutti gli effetti ogni relazione con gli esseri che ha in tal modo

Proprio l'affermazione che il Buddha permanga, che non abbandoni i suoi figli, ma continui compassionevolmente a soccorrerli in infiniti modi, rappresenta il perno della seconda metà del Sùtra del Loto. Il Buddha, in realtà, non è morto. Viene paragonato a un grande medico, i cui figli sono stati avvelenati: egli prepara rapidamente l'antidoto, ma la mente di alcuni dei suoi figli è tanto sconvolta che essi preferiscono ignorare la medicina. Il padre, allora, finge di morire e si allontana da loro. Quando quei figli, per la violenta emozione, tornano in sé e finalmente pren-

dono l'antidoto, il padre ricompare: la sua morte non era altro che un abile mezzo (capitolo 16). Pertanto Il Buddha è tuttora con noi.

Ma il Buddha dove ha conseguito la propria illuminazione Come abbiamo visto in precedenza ,secondo la cosmogonia Buddhista nell’universo vi

sono tre principali livelli di esistenza nell’Universo.

1. Il Kamadhatu o mondo del desiderio dove tutti gli esseri senzienti inclusi gli Dei in sanscrito Deva sono dominati dal desiderio (kama)

2. Rupadhatu o mondo della forma dove dimorano quegli Dei che hanno uno straordinario corpo sottile rupa ed gli organi di luce e che non sono più dominati dai desideri grossolani (kama)

3. Arupadhatu o mondo senza forma dove gli uomini non hanno forma e esistono in una dimensione di coscienza cosmica .

Per il Mahayana ,come abbiamo già visto,lo Stato di Arhat non è il raggiungimento della meta finale ;per conseguirla bisogna rinascere nei pian superiori di esistenza . Esistono dieci terre attraverso quali si purifica il proprio flusso di coscienza e si acquisisce via via un corpo sempre meno grossolano e sempre più luminoso e sottile fino a raggiungerel’illuminazione come Sambhogakaya nella terra pura di Akanistha posta in cima al Rupadhatu

Prossimi all’ottenimento della Buddhità , si ottiene la rinascita nella terra pura di Akanistha, dove assumendo il finissimo corpo di luce ,si purificano le ultime sottili maculazioni che affliggono la mente, ottenendo la Buddhità dotati della forma chiamata del Sambhogakaya .

Gli infiniti esseri del Kamadathu ,per via delle loro oscurazioni ,non possono percepire il Sambhogakaya e allora per loro, il Buddha manifesta innumerevoli proiezioni o emanazioni (nirmitas) della sua forma ,conosciuti come Nirmanakaya o corpi di emanazione(sprul-sku).

I testi spesso paragonano il .Il Sambhogakaya al sole i cui raggi luminosi splendono ovunque .

Benché vi sia unico sole nel cielo mille rivoli d’acqua sono in grado di riflettere immagini di esse che sono il Nirmanakaya.Ma soltanto quando il praticante ha raggiunto la via della visione (il darshana-marga il terzo tra i cinque sentieri) ha purificato sufficientemente le sue oscurazioni.In questo modo può vedere il Sambhogakaya e sentire direttamente i suoi insegnamenti.Gli esseri oscurati sono solo capaci di percepire il Nirmanakaya.

Per i sutra Mahayana quindi non solo l’illuminazione non si acquisisce in questa terra ma si devono sviluppare i tre kaya : Dharmakaya ,Sambhogakaya,Nirmanakaya

In origine nell Hinayana il Buddha oltre ad un corpo fisico aveva un chiamato 'corpo fatto di mente', o 'corpo di emanazione',

Questo secondo corpo che usava per compiere miracoli come ad esempio la visita alla madre morta. Venne sollevato anche il problema di chi precisamente dovessero onorare

i buddhisti quando veneravano il Buddha. Il corpo fisico, che morì di dissenteria, venne cremato, e le ceneri distribuite tra i fedeli e chiuse negli stùpa? Oppure qualcosa di meno corruttibile? Venne coniato un termine per indicare un corpo più metaforico, un corpo inteso come una raccolta di tutte le qualità, o dharma, del Buddha: saggezza, compassione, fermezza e pazienza. Questo insieme di qualità venne chiamato dharmakàya, e identificato con il corpo del Buddha a cui ci si rivolge per rifugio.

E’ bene sottolineare che il Buddha non è mai stato considerato un essere umano e non è descritto in questo modo da nessuna tradizione Buddhista .Egli infatti appare sempre come l’incarnazione di tre dimensioni :quella fisica ,quella “spirituale”(la sua esemplificazione della vera natura delle cose che dimostra la sua condizione di perfetta e di piena illuminazione)e quella magica cioè la sua compassionevole abilità e propensione ad intervenire magicamente per il bene degli altri esseri.

Queste tre dimensioni rivelano l'incarnazione della perfetta sapienza, vale a dire la conoscenza della vera natura delle cose, e della compassione, vale a dire l'intervento magico, che sono i due elementi costitutivi fondamentali della Buddhità, nel corpo fisico del monaco che abbiamo la fortuna di incontrare. Noi, peraltro, possiamo divenire illuminati non in virtù del semplice incontro con lui, ma seguendo i suoi insegnamenti fino ad incarnarli nella nostra stessa presenza fisica. Il corpo del Bud- dha, e i suoi interventi magici, non sono in effetti che strumenti funzionali alla conoscenza della Verità da parte di altri esseri. In tal modo, con l'affilata spada della nostra sapienza, 'uccidiamo' il Buddha fisico, con ciò trascendendo la Queste tre dimensioni rivelano l'incarnazione della perfetta sapienza, vale a dire la conoscenza della vera natura delle cose, e della compassione, vale a dire l'intervento magico, che sono i due elementi costitutivi fondamentali della Buddhità, nel corpo fisico del monaco che abbiamo la fortuna di incontrare. Noi, peraltro, possiamo divenire illuminati non in virtù del semplice incontro con lui, ma seguendo i suoi insegnamenti fino ad incarnarli nella nostra stessa presenza fisica. Il corpo del Bud- dha, e i suoi interventi magici, non sono in effetti che strumenti funzionali alla conoscenza della Verità da parte di altri esseri. In tal modo, con l'affilata spada della nostra sapienza, 'uccidiamo' il Buddha fisico, con ciò trascendendo la

Tutto questo venne ampliato nel Mahayana. Il corpo di emanazione non fu più il corpo usato dal Buddha in occasioni particolari per compiere atti miracolosi, ma divenne l'unico corpo apparso nel mondo, l'unico corpo visibile agli esseri umani. Fu il corpo di emanazione a nascere come principe, e fu il corpo di emanazione che si recò in città su un cocchio e che rinunciò alla vita principesca; e fu il corpo di emanazione che raggiunse l'illumuiazione e insegnò il dharma al mondo. Ciò significa che il Buddha che noi conosciamo è un'apparizione magica. Inoltre il Buddha, nelle sue emanazioni, non era confinato nella forma splendente che ci è così familiare grazie all'iconografia buddhista. Poteva apparire sotto forma di oggetto inanimato, di una frase o una parola ispirante, di una brezza rinfrescante, di un ponte su un fiume altrimenti invalicabile. Poteva manifestarsi in forma umana, soprattutto come musicista o pittore.

Il vero buddha, la sorgente delle emanazioni, era il dharmakàya, un termine che benché si riferisse ancora alle qualità trascendenti del Buddha, giocando sulla polisemia del termine 'dharma' venne a indicare qualcosa di forse più cosmico, un principio eterno di illuminazione e verità ultima indicato nei testi mahàyàna più tardivi come la mente onnisciente del Buddha e la sua natura profonda di vacuità.

Quindi possiamo incontrare almeno tre aspetti per il Dharmakaya . Il dharmakàya, in questo senso, è il corpo, o l'insieme, delle verità ultime

(sunyatà, vacuità); o, anche, l'insieme di quei dharma mentali che raggiungono la cognizione della verità ultima (=prajna). Anche se il Buddha è morto, rimane comunque la verità da lui enunciata, la cui realizzazione è tuttora possibile. cose.

il termine dharma dell'espressione dharmakàya indica,infatti , quegli elementi fondamentali (i dharma, appunto) che, posseduti nella più alta misura, determinano la realizzazione del Buddha, così per i testi della Perfezione detta sapienza l'espressione dharmakàya finì col riferirsi non solo alla Dottrina che enuncia la vera natura delle cose, ma anche alla realizzazione e alla vera natura delle cose in sé e per sé.