Il Novecento, secolo consumistico

1.1 Il Novecento, secolo consumistico

  In tutti i paesi ad economia avanzata i rifiuti aumentano e il territorio necessario ad assorbire gli scarti si riduce, come anche la tolleranza dei cittadini nei confronti dell'impiantistica inquinante: ne è un esempio la sempre maggiore difficoltà che i governi trovano nell’allestire nuove discariche o altri impianti di smaltimento, testimoniata ad esempio, in Italia, dai documenti del Nimby forum 177 : sarebbero 139 gli impianti contestati in Italia nel biennio 2005-2006, di cui il 35 sono inceneritori, il 13 circa «altri impianti [per la gestione dei] rifiuti» 178 , e il 12 circa discariche, per un totale di circa il 60 di impianti contestati riguardanti solo la gestione dei rifiuti (dati parziali).

  Questo trend si diffonde anche nei paesi a reddito medio inferiore, seguendo la delocalizzazione industriale e l'espansione del sistema economico di mercato, che porta con sé il modello occidentale di aumento dei consumi, pur senza risolversi sempre in miglioramenti della qualità della vita 179 . Tali tendenze prendono le mosse dall'intensificazione dell'uso dei materiali, che ha radici storiche nelle profonde rivoluzioni tecnologiche e sociali e nello sviluppo dell'imprenditoria avvenute in seguito alla rivoluzione industriale. E' nel novecento che questi fattori, interagendo, hanno «prodotto economie che estraggono, lavorano e gettano via enormi quantità di materiali» 180 .

  C'è un forte legame tra queste tendenze e la trasformazione degli scarti in un problema, piuttosto che in un'opportunità: così erano considerati nelle città preindustriali

  e fino all'ottocento circa, fin quando cioè ebbe luogo uno scambio equilibrato di input- output della produzione agricola contro residui organici cittadini che ammendavano i campi, chiudendo un cerchio (come messo in evidenza dai lavori di storia urbana di Ercole Sori, ad esempio 181 ). Preoccupazioni per l'igiene pubblica da un lato e l'invenzione dei fertilizzanti artificiali dall'altro portarono ad abbandonare queste pratiche. Alla fine dell'ottocento, le maggiori città del mondo inaugurarono un rapporto nuovo con

  177 Il Nimby Forum è un “Tavolo di confronto e osservatorio nazionale” creato da Allea s.r.l., che si occupa di studiare il peso della “sindrome Nimby” nella messa in cantiere di opere a grande impatto

  ambientale. E' patrocinato dal governo (Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Ambiente e del Territorio, Ministero delle attività produttive). Qui ci si riferisce in particolare allo studio “Nimby Forum 0506. I processi partecipativi e l'informazione ambientale a sostegno dello sviluppo sostenibile nel paese”, gentilmente concessomi da Allea s.r.l. (Copyright Allea Srl. Tutti i diritti riservati). Per informazioni ulteriori si veda il sito internet www.nimbyforum.netprogetto.htm. La metodologia utilizzata in questo studio consiste soprattutto nell'analisi di quotidiani e periodici.

  178 Ibidem, p. 6. 179 Si veda ad es. la Tab. 2 infra Cap. 1. 180

  Gardner G., Sampat P., “Per un’economia dei materiali sostenibili”, in State of the world ’99,

  Edizioni Ambiente, Milano, 1999, p. 48.

  181 Si veda Sori E., Il rovescio della produzione. I rifiuti in età preindustiale e paleotecnica, Bologna, Il Mulino, 1999.

  l'ambiente: ad esempio «grandi quantità d'acqua furono portate in città da fonti lontane, e una volta usate, scaricate in un fiume, un lago o in mare ([secondo il] criterio di allontanamento e diluizione). Questo processo, che Martin Melosi ha chiamato la costruzione della città sanitaria, ruppe il cerchio organico» 182 . La percezione dei rifiuti come problema igienico-sanitario, poi, iniziò in alcune città già venti o trenta anni prima del novecento, come testimoniano ancora i lavori di Sori e quelli di Martin Melosi sulla Sanitary city statunitense.

  Melosi afferma che «the “garbage problem” began to receive public notoriety in the 1880s 183 » , quando l'urbanizzazione di massa delle grandi città industriali ebbe come conseguenza una maggiore concentrazione dei rifiuti a fronte di spazi verdi ridotti: l'immondizia domestica e quella derivante dallo spazzamento stradale, la cenere dei camini, le deiezioni dei cavalli e gli altri residui organici delle famiglie inurbate divennero impossibili da gestire, in spazi fortemente urbanizzati. Secondo Melosi, quattro furono le cause principali per cui anche i rifiuti solidi urbani entrarono a far parte dei servizi forniti dalla “città sanitaria”, benché originariamente solo la fornitura di acqua potabile e la predisposizione della rete fognaria fossero considerati colonne portanti del sistema di igiene urbana:

  l'accumulo di residui diventava impossibile da gestire a livello familiare, come si faceva in passato);

  lo sviluppo della scienza e le applicazioni all'igiene pubblica avevano evidenziato i rischi potenziali della convivenza con i residui putrescibili;

  a fine ottocento, il valore della pulizia era stato elevato a un vanto per la propria città;

  avendo già predisposto un servizio di igiene pubblica per gestire le acque reflue, diveniva abbastanza facile pensare di estendere il servizio anche agli scarti solidi. 184

  In Europa, negli stessi anni, le città producevano meno scarti: secondo studi degli inizi del novecento citati da Melosi stesso, quattordici città statunitensi avevano una media di 860 pounds di rifiuti prodotti pro-capite (circa 390 kg), contro i 450 di otto città inglesi (circa 205 kg) e 319 di 77 città tedesche (circa 145 kg). 185

  Lungo il XX secolo tali cifre sono più che raddoppiate. Sebbene esse riguardino quella parte dei rifiuti solidi, l'immondizia domestica, quantitativamente meno

  182 Armiero M., Barca S., Storia dell'ambiente. Una introduzione, Roma, Carocci, 2004, p. 154.

  Melosi M. V., The sanitary city: environmental services in urban America from colonial times to the

  present , University of Pittsburgh Press – Abridged edition, 2008 (ed. or. 2000), p. 113.

  184 Cfr. ibidem, p.113. 185 Cfr. ibidem, p.115.

  importante, assumono particolare rilevanza porché essa è diffusa in tutto il mondo e prodotta giornalmente da miliardi di persone. Nonostante le apparenze, questa è la frazione che genera i maggiori problemi nella gestione: i residui delle attività produttive, infatti, (agricoltura, settore manifatturiero, minerario, edilizia ecc.) sono composti in parte

  da sostanze altamente pericolose, ma la loro omogeneità, all'interno dei processi produttivi, solitamente conferisce loro una maggiore facilità di gestione. I residui industriali sono generalmente prodotti in luoghi ben definiti, cioè in modo più concentrato sul territorio rispetto a quelli urbani. L'immondizia quotidianamente prodotta dalle abitazioni è, invece, di gran lunga più eterogenea ed è prodotta da una miriade di piccoli consumatori sparsi sul territorio. Di conseguenza, la raccolta dei rifiuti solidi urbani, con o senza differenziazione, richiede un'organizzazione capillare sul territorio, e un processo successivo di riuso, riciclo o smaltimento che deve fronteggiare i problemi provocati dall'eterogeneità dei residui raccolti. Vedremo in seguito quali sistemi di gestione sono stati predisposti nell'arco del novecento e oltre, e quali problematiche affrontano.

  In termini globali, si stima che in un anno la quantità di rifiuti urbani prodotti nel mondo sia giunto intorno ai due miliardi di tonnellate (2006) 186 . In particolare è dopo la

  seconda guerra mondiale che il fenomeno ha acquisito rilevanza nei paesi economicamente avanzati. Queste quantità, essendo funzione diretta del benessere, sono aumentate con l'aumento del Pil: negli ultimi venti-trenta anni del novecento, infatti, dopo la decolonizzazione e durante la diffusione dell'ideologia dello sviluppo per l'allora “terzo mondo”, vari paesi “emergenti” hanno sperimentato una crescita economica sostenuta, che hanno condotto ad un aumento dei consumi. Oggi il caso della Cina, potenza economica mondiale “emersa” che conta circa 1,6 miliardi di abitanti, fa prevedere un aumento notevole della quantità dei rifiuti prodotti nel mondo, a meno che il governo cinese non trovi soluzioni diverse da quelle adottate dai paesi di vecchia tradizione industriale.

  Sulle ragioni di un tale aumento della produzione di rifiuti durante il XX secolo, l'economia ha provato a dare una spiegazione alla funzione sopracitata: l’economista William Baumol 187 la espose nella sua teoria della “malattia dei costi”, che affligge tutte le attività ad alto contenuto di lavoro manuale e a elevata presenza di personale. La dinamica salariale dell’economia, infatti, dipende dal settore più produttivo – che è divenuto quello ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di lavoro. Perciò le attività manuali, come quelle legate alla riparazione degli oggetti, mantenendo un’alta intensità di lavoro hanno una dinamica dei costi inesorabilmente crescente. Per riparare alcuni tipi di

  186 Cfr. Global Waste Management Market Assessment2007, Key Note Publications Ltd, 2008 187 Citato in Massarutto A., I rifiuti. Come e perchè sono diventati un problema, Bologna, Il Mulino, 2009,

  pp. 14-18.

  oggetti oggi (Baumol usa l’esempio di un calzino da rammendare) si impiega la stessa quantità di tempo che si usava in epoca pre-industriale, ma con costi diversi. Pertanto, le attività manuali sono destinate:

  - a ridursi o a scomparire, quando i loro prodotti possano essere sostituiti da

  surrogati di qualità inferiore ma a costi unitari incomparabilmente più bassi (Cd o Mp3 al posto delle esecuzioni di musica dal vivo, scarpe in serie al posto di quelle su misura);

  - oppure, a occupare una maggiore quota di reddito individuale se non sono

  sostituibili. Ne consegue che, in base a una valutazione economica di costi e benefici, risulta più vantaggioso produrre nuovi oggetti piuttosto che riparare quelli vecchi, poiché la riparazione comporterebbe uno spreco di tempo e di risorse economiche. Naturalmente, come nota tra gli altri Massarutto, vi sono notevoli costi ambientali da inserire all’interno di questo sistema. Tali costi non riguardano tanto la questione dell’esaurimento delle risorse intese come materiali di produzione, che, dopo i primi allarmismi degli anni settanta sui limiti della crescita, pare non essere grave come si temeva 188 , ma sono relativi soprattutto al deterioramento delle risorse naturali del pianeta capaci di tenere in vita gli ecosistemi, messe in pericolo dalle emissioni inquinanti del sistema produttivo 189 . Sotto accusa è, dunque, il consumo massiccio di energia, usata per estrarre, trasportare e trasformare le materie prime, o anche per riciclare le materie “prime-seconde” 190 , che, sottoforma di merci, provocheranno ancora altre forme di consumo di energia 191 .

  Tali aspetti del problema ambientale sono studiati dagli ideatori dell'impronta ecologica, “meta-indicatore” che fornisce un calcolo semplificato dei consumi individuali e collettivi delle risorse naturali: abbiamo visto in precedenza come, già a fine ottocento le città statunitensi erano più consumiste delle loro pari europee: quella del gigante consumista statunitense è una tendenza conosciuta, che evidentemente affonda le sue radici nel passato. Ad oggi, nel calcolo dell'impronta ecologica, proprio gli Stati Uniti,

  188 Anche perché il consumo di materiali sarebbe risolvibile da un lato, con il riciclaggio dei materiali stessi (specie per i metalli), dall'altro con l'utilizzo di materiali derivanti da fonti rinnovabili (come legno,

  carta, tessuti ecc.), e con una gestione razionale di tali fonti. Infatti, non è detto che un utilizzo irrazionale di alcune di queste risorse (come il legno delle foreste) non possa provocare, come sta già avvenendo, pericolosi squilibri ecosistemici. L'impatto delle attività umane sull'ambiente resta comunque una questione complessa, in cui dare giudizi netti delle conseguenze appare semplificatorio e, dunque, fuorviante.

  189 Come posto in evidenza nei vertici internazionali sull'ambiente sul finire degli anni ottanta e negli anni novanta.

  190 Cfr. Massarutto, op. cit., pp. 14-17. 191 Basti pensare al peso dell'automobile nel consumo di “beni comuni” come l'aria pulita, che oggi

  sembra essere entrata nel novero delle risorse ambientali, in quanto scarsa.

  insieme agli altri paesi ad alto sviluppo tecnologico, sono la nazione con il più alto consumo annuale di ettari di terra pro-capite 192 , come si può notare nella figura seguente.

Fig. 5. L'impronta ecologica per paese al 1961 e al 2005

  192 In realtà gli Stati Uniti sono preceduti dagli Emirati Arabi Uniti, con un'impronta ecologica di 9,5 gha. Ma gli Emirati contano una popolazione di soli 4,5 milioni di abitanti. Anche altre nazioni

  particolarmente ricche, come il Kuwait o la Danimarca, hanno un'impronta ecologica di poco inferiore a quella degli Usa, ma la loro popolazione ha sempre un peso limitato (2,7 e 5,4 milioni di abitanti, rispettivamente).

  Fonte: Ewing B., Goldfinger S., Wackernagel M., Stechbart M., Rizk S. M., Reed A., Kitzes J. , The Ecological Footprint Atlas 2008, Oakland, Global Footprint Network, 2008, p. 18. Legenda: gha sta per global hectares, un ettaro di terra che ha una produttività media rispetto alla superficie del pianeta.

  In 45 anni l'aumento dell'impronta ecologica è stato importante, ma meno grande di quello della diminuzione della biocapacità pro-capite, definita come «the total amount of bioproductive land available. “Bioproductive” refers to land and water that supports significant photosynthetic activity and accumulation of biomass, ignoring barren areas of low, dispersed productivity» 193 .

Fig. 6. La bio-capacità per paese al 1961 e al 2005

  193 Ewing B., Goldfinger S., Wackernagel M., Stechbart M., Rizk S. M., Reed A., Kitzes J. , The Ecological Footprint Atlas 2008, Oakland, Global Footprint Network, 2008, p. 7.

  Fonte: Ewing B., Goldfinger S., Wackernagel M., Stechbart M., Rizk S. M., Reed A., Kitzes J. , op. cit.,

  p. 19.

  Come già accennato, l'impronta ecologica calcola gli ettari necessari sia a sostenere la produzione, sia ad assorbire gli scarti: la produzione di rifiuti, dunque, rientra tra gli indicatori del “meta-indicatore” ideato nel 1996 da Mathis Wackernagel e William Rees. Nonostante alcune critiche subìte sulle modalità di calcolo, l'impronta ecologica conserva una sua valenza divulgativa e riesce a delineare alcune tendenze globali, come quelle relative al forte aumento dei consumi (non bilanciato dai pur importanti progressi tecnologici): è stato calcolato che uno statunitense medio utilizza ogni giorno in totale 101 kg di materiali. In un anno ne avrà consumati dunque 37 tonnellate, mentre, in tutti gli Stati Uniti si arriverà a una quota annuale di circa 10 miliardi di tonnellate. 194 Questi calcoli si riferiscono alla quota individuale complessiva di utilizzo della materia, compresa quella che serve a produrre gli oggetti utilizzati (il cosiddetto zaino ecologico). «If everyone lived the lifestyle of the average American we would need five planets », è la provocazione probabilmente non lontana dal vero del Global Footprint Network, l'istituto presieduto dallo stesso Mathis Wackernagel. In effetti, l'impronta ecologica di molti paesi industrializzati è spesso più ampia del territorio nazionale 195 : ciò significa che i consumi dei paesi industrializzati si

  194 Cfr. Gardner G., Sampat P., op. cit., p. 47. 195 Cfr. ibidem, p. 53.

  basano, in parte, sulle importazioni di materie prime e di energia dai paesi economicamente meno sviluppati, nonché sull'”esportazione” di inquinamento nello spazio o sulla posposizione degli effetti negativi nel tempo (verso le generazioni future). Ciò si può evincere dalla precedente fig. 6 o dalla seguente tab. 3, dove sono elencate le impronte ecologiche e le disponibilità di bio-capacità pro-capite di alcuni paesi, corredate dal calcolo del surplus o del deficit ecologico pro-capite.

  Tab. 3. Impronta ecologica, biocapacità e deficit o surplus medi pro-capite per aree

  geografiche e paesi, 2005 Paese

  Abitanti

  Impronta

  Disponibilità di

  Surplus o deficit

  (milioni)

  ecologica pro-

  biocapacità pro-

  ecologico pro-

  capite (gha)

  capite (gha)

  capite (gha)

  Divisioni per reddito pro-capite

  Paesi ad alto reddito

  Paesi a reddito medio

  Paesi a basso reddito

  Esempi per paesi – macro-aree geografiche

  Stati Uniti d'America

  Unione Europea

  America Latina e Caraibi

  Asia centrale

  Fonte: rielaborazione dei dati contenuti in Global Footprint Network 2008, National Footprint Accounts, 2008 Edition, disponibile al sito www.footprintnetwork.org. Note: per un elenco dettagliato dei paesi compresi nelle macroaree, si veda la fonte citata.

  Tale tendenza a innalzare i livelli dei consumi è cresciuta dalla fine dell'ottocento fino ai giorni nostri. Le quote di minerali estratti durante lo sviluppo della seconda rivoluzione industriale, crebbero a dismisura: ad esempio, tra il 1870 e il 1913 la produzione di minerali di ferro in Gran Bretagna, Germania e Francia crebbe di 83 volte, guidata dai notevoli miglioramenti apportati al processo di produzione dell'acciaio. 196 Altri fattori, quali l'abbassamento dei costi di trasporto e le migliori tecnologie usate nell'estrazione, uniti a incentivi o sussidi offerti ai produttori dai governi, rendevano sempre più facile l'accesso alle materie prime e alle fonti di energia. Il modello di impresa fordista , legato alla catena di montaggio da un lato, e alla produzione in serie da vendere alla stessa forza lavoro dall'altro, innescarono tale processo. Il peso dell'utilizzo dei materiali nel determinare l'impronta ecologica di un paese è notevole. Alcune stime prudenti lo calcolano in 15 sul totale, altre attribuiscono ai materiali una quota ben superiore. Ricerche che misurano in peso la quota di materiali utilizzati sul totale delle

  196 Cfr. ibidem, p. 49.

  risorse per paese attribuiscono a tale quota la percentuale del 44 negli Stati Uniti, del

  58 e del 68 rispettivamente per nel Giappone e nella Germania. Tra i fattori più preoccupanti di questi aumenti, vi è il danno ambientale prodotto durante l'estrazione, la lavorazione e lo smaltimento di questa “insostenibile pesantezza” del flusso di materiali. Lo State of the World del Worldwatch Institute 197 identifica alcune grandi categorie di materie la cui estrazione e produzione genera notevoli danni ambientali diretti e indiretti:

  • Legno: la domanda di legno e carta per tavole da costruzione, materiali da

  imballaggio, mobilio, giornali ecc. continua a spogliare le foreste. Si stima che il 70 delle foreste vergini siano minacciate, mentre già in molte parti del mondo le foreste naturali, che forniscono servizi ecologici vitali (salvaguardano la biodiversità, controllano l'erosione dei suoli e il ciclo dell'acqua, regolano la temperatura e la produzione di ossigeno ecc.), sono state sostituite da piantagioni monocolturali, le quali distruggono la biodiversità di molte aree, insieme all'introduzione di pesticidi tossici nell'ambiente. Spesso poi, a completare il quadro negativo, è stata allontanata anche la popolazione locale originaria 198 .

  • Minerali e metalli: la loro estrazione lascia un quantitativo di scarti sproporzionato

  rispetto a quanto viene effettivamente prodotto. Si calcola che solo l'1 dei materiali rimossi nelle miniere di rame sarà trasformato effettivamente in rame, mentre, nel processo di estrazione dell'oro, solo lo 0,1 del materiale estratto diventa metallo prezioso. La situazione non è assai migliore in altre attività minerarie: per ogni chilo di piombo si avranno 97,5 kg di rifiuti, 70 kg per un chilo di alluminio, 60 per un chilo di acciaio. Gardner e Sampat ci illuminano con un esempio che riesce a far comprendere meglio quanto questo problema sia legato alla vita quotidiana: dietro due piccole fedi nuziali si nasconde uno “zaino ecologico” che comprende ben sei tonnellate di rifiuti! Se gli scarti dell'industria mineraria sono mediamente 58 volte maggiori di quelli urbani, la questione più grave è che essi contengono quasi sempre sostanze chimiche altamente tossiche utilizzate nel processo di estrazione e separazione del metallo dai minerali, come acido solforico, mercurio, cianuro ecc. Molti fiumi a valle del processo di estrazione sono stati contaminati provocando terribili conseguenze su flora e fauna, e naturalmente anche sulla salute degli abitanti del luogo.

  • Le attività industriali hanno immesso nell'ambiente milioni di tonnellate di piombo,

  zinco, rame. Il piombo è una neurotossina che danneggia lo sviluppo mentale infantile. Il mercurio aumenta i rischi di cancro e può danneggiare reni e sistema

  197 Cfr. Gardner G., Sampat P., op. cit., pp. 54-57. 198 Si veda ad es. il caso di Java nel libro Peluso N., Rich forest, poor people. Resource control and

  resistance in Java , Berkeley, University of California Press, 1992.

  nervoso. I metalli, in generale, contaminano l'ambiente e impediscono la normale riproduzione di flora e fauna. La produzione di oggetti non è solo all'origine della produzione dei rifiuti, ma causa anche consumo di energia, che è prodotta molto spesso con combustibili responsabili dei cambiamenti climatici.

  • Prodotti chimici: il novecento è, come si diceva, il secolo in cui tutti gli elementi

  della tavola periodica sono stati utilizzati in modo mai sperimentato prima, creando nuove sostanze di sintesi. Il loro inserimento nell'ambiente genera conseguenze non del tutto note. I clorofluorocarburi, ad esempio, si sono rivelati essere i maggiori responsabili della rarefazione della fascia d'ozono. I pesticidi clororganici sono presenti su scala globale: seppur utilizzati solo in alcune parti del globo, essi, attraverso i venti, l'acqua e gli alimenti, si sono trasferiti, secondo alcune ricerche, anche nei tessuti di popolazioni che mai li hanno adoperati. Tra i pesticidi possiamo annoverare anche quelle sostanze di sintesi chiamate Pop (Persistent Organic Pollutants), che durano ben più a lungo della vita biologica e si trasferiscono, spesso lungo la catena alimentare, da un essere vivente all'altro (specie umana compresa). I loro effetti possono essere estremamente gravi, poiché sono nocivi ad esempio per il sistema endocrino e riproduttivo. Si calcola che gli effetti dei prodotti chimici sulla salute umana sono ignoti nella maggioranza dei casi. Anche l'uso massiccio dei fertilizzanti, che ha permesso l'aumento della produttività agricola, ha, d'altra parte, avuto una ricaduta negativa sull'equilibrio generale degli ecosistemi, poiché ha immesso nell'ambiente grossi quantitativi di azoto, aumentando la fertilità generale, ma favorendo alcune specie di piante invasive a danno di altre, come alcuni tipi di alghe marine nei mari in cui sono dilavati i fertilizzanti e portati dai fiumi (basti pensare alla “mucillaggine” del Mar Adriatico dovuta agli scarichi portati dai fiumi passanti per la Pianura Padana). Oltretutto, si cominciano a studiare oggi gli effetti dell'alterazione del ciclo dell'azoto, che è uno dei quattro più importanti insieme a quello del carbonio, dello zolfo e del fosforo nel mantenimento di essenziali sistemi planetari.

  • Rifiuti industriali: un enorme flusso di materiali derivanti dalla produzione sono

  smaltiti come rifiuti industriali, ma in tutti i paesi in cui vi è una presenza di industrie, tali smaltimenti rappresentano, un problema: una indagine della International Maritime Organization del 1991 fatta su oltre 100 paesi ha rilevato che

  i due terzi di questi hanno confermato la presenza sul loro territorio di discariche incontrollate, e un quarto ha riferito che smaltiva negli oceani questo imbarazzante carico. Il problema principale dei rifiuti industriali sta nella gestione della frazione che la legge italiana definisce “rifiuti speciali pericolosi”: qui si trovano le sostanza i due terzi di questi hanno confermato la presenza sul loro territorio di discariche incontrollate, e un quarto ha riferito che smaltiva negli oceani questo imbarazzante carico. Il problema principale dei rifiuti industriali sta nella gestione della frazione che la legge italiana definisce “rifiuti speciali pericolosi”: qui si trovano le sostanza

  • Rifiuti solidi urbani: costituiscono un flusso relativamente piccolo di materiali

  rispetto a quelli industriali, ma generano anch'essi problemi igienici, se lasciati a marcire nelle vicinanze delle abitazioni, come avviene tuttora in alcune città del Sud del mondo, e vari tipi di problemi ambientali e sociali, anche quando essi sono gestiti secondo un modello industriale: i due principali e storici modi di smaltire i rifiuti, nell'era industriale, sono stati, e sono ancora, l'interramento in discarica oppure l'incenerimento (affiancati in passato dall'affondamento nei mari o nei laghi). Tutti queste modalità di smaltimento causano danni ambientali più o meno gravi e più o meno tollerati, a secondo del contesto geo-morfologico, abitativo e sociale. Le discariche producono il percolato, liquido nocivo che può contaminare le falde acquifere e gas climalteranti; gli inceneritori producono ceneri tossiche, gas, particolato fine contenente metalli pesanti e diossine; la localizzazione stessa di questi impianti causa spesso conflitti ambientali difficilmente risolvibili.

Fig. 7. La miniera d'oro di Ok Tedi, in Papua Nuova Guinea

  Fonte: Unep, Secretariat of the Basel Convention, Grid Arendal, Dewa Europe, Vital waste graphics, 2004 Note: Le foto mostrano il degrado dell'area della miniera d'oro di Ok Tedi, sfruttata per 30 anni e con

  chiusura prevista nel 2010. Partendo da sinistra in alto, in senso orario vediamo la posizione geografica della miniera sul fiume Ok Tedi, gli scarichi di materiale a cielo aperto, e le conseguenze delle piogge nel fiume. L'ultima foto dà l'idea del degrado delle foreste intorno al fiume.

  Sugli ultimi due punti si tornerà nei paragrafi successivi. Da quanto emerso in precedenza, risulta dunque maggiormente coerente e completo affrontare il tema dei rifiuti partendo dalla gestione della filiera dei materiali: per le amministrazioni pubbliche Sugli ultimi due punti si tornerà nei paragrafi successivi. Da quanto emerso in precedenza, risulta dunque maggiormente coerente e completo affrontare il tema dei rifiuti partendo dalla gestione della filiera dei materiali: per le amministrazioni pubbliche

  Al contrario, in questa tesi si vuole evidenziare che le politiche ambientali devono poter essere libere di muovere critiche ai processi di produzione e di riproduzione della società: nel caso dei rifiuti, tali politiche devono poterne individuare le cause a monte (non trascurando, ovviamente, la ricerca di buoni metodi di gestione a valle): questa è ormai l'unica possibilità di uscire da un ciclo di emergenze ambientali e sociali già gravi e in crescita. Nell'individuazione delle cause prime dei problemi succitati, inoltre, si deve tener conto dei rapporti di potere che sottendono quel tipo di sistema di sfruttamento delle risorse ambientali.