Le risorse naturali nel treadmill of production

1.2 Le risorse naturali nel treadmill of production

  L'ambiente visto come “risorsa” è di certo un'arena di conflitto. Finanche la definizione stessa delle risorse naturali dipende da fattori ideologici e di potere. In questo paragrafo ci occuperemo di definire meglio le risorse ambientali e di presentarne le differenti interpretazioni. In base ad esse, esistono diverse politiche e azioni in loro difesa, sia istituzionali, sia provenienti dal basso o dal mondo accademico. Si va dagli approcci end of pipe

  a quelli di ampio respiro, che puntano a salvaguardare le risorse naturali

  globali, considerate “beni comuni” per tutta l'umanità. Inoltre, si terrà anche conto delle nuove tendenze del mercato e delle soluzioni tecnologiche verso la riduzione degli sprechi di risorse, come la dematerializzazione: essa potrebbe essere un segno di cambiamento del sistema produttivo, nel verso di una rivalutazione della base materiale dell'economia (o semplicemente nell'intento di risparmiare sui costi di produzione). Ma l'aumento dei

  199 Cfr. Segre A., Dansero E., op. cit., p. 97. 200 Ibidem, p. 98.

  consumi, stimolato dal mercato stesso, vanifica, in termini assoluti, la riduzione dell'uso delle risorse.

  Trattare di risorse è preordinato ad un discorso sulla gestione dei rifiuti, e ciò è vero anche per l'Unione Europea, uno degli organismi internazionali che sta facendo i maggiori sforzi legislativi sul tema della salvaguardia dell'ambiente.

  Risorse ed economia Per occuparci di questo tema in modo sintetico ma completo, bisogna tener presente

  che da sempre la specie umana è entrata in relazione col proprio ambiente. Già la comparsa stessa dell'homo sapiens sulla Terra ha condotto alla relazione società-ambiente basata sull'appropriazione delle risorse naturali, allo scopo di organizzare la sopravvivenza individuale e sociale. 201

  I bisogni delle società umane, differenti nelle

  diverse epoche sono stati soddisfatti attraverso i mezzi materiali. L'uso massiccio di queste risorse, trasformate dal lavoro umano, è iniziato, come sappiamo, con la rivoluzione industriale. Lo spazio, base fisica dell'economia, è stato ampiamente trasformato: esso, infatti, insieme al lavoro umano, costituisce la «categoria centrale della riflessione teorica e geopolitica» 202 , ossia il territorio.

  La base materiale della territorializzazione e del sistema produttivo è costituita, dunque, dalle risorse. In natura non vi sono «- stricto sensu – risorse naturali, ma solo materie naturali» 203 . Le diverse società, nel corso del tempo, hanno attribuito ad alcune di esse il ruolo di risorse utili alla sopravvivenza e alla soddisfazione dei bisogni, attraverso un processo di selezione e di elaborazione che vi ha incorporato molteplici valori immateriali 204 .

  Per l'economia, assurgono al ruolo di risorse economiche quegli elementi dell'ambiente che posseggono un valore d’uso e un valore di scambio. «Con l'avvento del colonialismo e dell'industrializzazione […] le risorse naturali sono diventate quelle componenti della natura richieste come input per la produzione industriale e il commercio coloniale» 205 , dice la biologa indiana Vandana Shiva, che, non senza far trasparire il suo disappunto, conclude notando: «in quest'ottica, alla natura è stato chiaramente strappato via il proprio potere creativo, è stata mutata in un contenitore di materiali grezzi in attesa di essere trasformati in input per la produzione di merci» 206 . In tal modo si genera una

  201 Tinacci Mossello, op. cit., p. 21. 202 Ibidem, p. 22. 203 Ibidem, p. 22. 204 Cfr. Faggi P., “Il ruolo dei quadri ambientali nella comprensione del sottosviluppo”, in Boggio F.,

  Dematteis G. (a cura di), op. cit., 2002, p. 75, e Raffestin C., Per una geografia del potere, Milano, Unicopli, 1983, p )

  205 Shiva V., “Risorse”, in Sachs W. (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Torino, Ega, 2004 (ed. or. 1992), p. 261

  206 Ibidem, pp. 261-262.

  forte spinta riduzionistica nell'interpretare la natura, con la conseguente incapacità di cogliere i legami tra il tutto e le parti, e svalutandone le caratteristiche di fonte di vita. 207

  Molti, come Shiva stessa, sottolineano che la radice originaria del termine risorsa (dal latino re-surgere) era legato ad una natura viva e potente, capace di auto-rigenerarsi, mentre l'economia neoclassica, trasformando la natura in risorsa, ha mutato la percezione dell'ambiente, che è visto come privo di valore di per sé, o addirittura come materia inerte. Shiva critica anche la “distinzione ambigua” tra risorse rinnovabili e non rinnovabili, come codificate in economia. L'ambiguità deriva dal fatto che il criterio di distinzione è soggetto all'uso che si fa delle risorse naturali 208 . Tale visuale è infatti guidata dal concetto di utilità, ovvero dalle preferenze soggettive dei consumatori. Ad una domanda dei consumatori considerata come potenzialmente illimitata, si è contrapposta un'ideale scarsità dei beni. Benché, nel ragionamento economico, tutti i beni siano considerati aprioristicamente scarsi, tutti però possono essere oggetto della domanda fino ad un limite che non è dato dalla base fisica delle risorse, ma dalla soggettività della scelta individuale: il mondo intero rientra nella categoria delle risorse economiche. Tale punto di vista si è esteso anche alle opere dell'ingegno e alle conoscenze (il know how), e agli stessi esseri umani (risorse umane), mercificando sempre più i rapporti di lavoro. Il mezzo per acquisire le risorse materiali, è il danaro, o risorse finanziarie, considerato l'equivalente di tutte le altre: tanto che, col danaro, idealmente si possono mobilitare tutte le risorse, senza limiti se non nelle stessa disponibilità finanziaria. Ma, mentre le risorse immateriali possono essere effettivamente pensate come illimitate, poiché vi sono infinite possibilità creative dell'intelletto, quelle materiali trovano il loro limite nel degrado degli ecosistemi.

  Questa evoluzione intellettuale dell'analisi economica, argomenta Viale, ha offerto «legittimità teoriche a processi che in molti casi non erano che operazioni di saccheggio, di prevaricazione, di devastazione dell'ambiente o delle preesistenti forme della convivenza sociale» 209 . Infatti, come asseriva Polanyi nella sua critica al processo di “grande trasformazione” della società verso il modo di riproduzione industriale capitalistico, si è preteso di estendere le regole costitutive del mercato all'insieme dei rapporti materiali e sociali che definiscono la vita associata, e che non possono essere mercificate senza minare le basi stesse della convivenza 210 . Egli osservava che il processo di mercificazione dell'ambiente e della società è basato su tre categorie di merci fittizie, che sono la terra (riconducibile a ciò che oggi chiamiamo ambiente), il lavoro (le risorse umane) e il danaro (le risorse finanziarie).

  207 Cfr. Armiero M., Barca S., Storia dell'ambiente. Una introduzione, Roma, Carocci, 2004, p. 127. 208 Cfr. Shiva V., op. cit. 209 Viale G., (1994), op. cit., p.101. 210 Polanyi K., op. cit. (citato in Viale G., (1994), op. cit., p.101.)

  Beni liberi e beni comuni Proprio la riduzione a risorsa di tutto l'ambiente, compresi i cosiddetti “beni liberi”

  o “beni pubblici puri”, sta amplificando oggi tutte le problematiche ambientali a scala globale.

  L'aumento della popolazione, la sua diffusione su tutto il globo, e l'aumento dei consumi pro-capite stanno facendo perdere alle risorse rinnovabili le loro caratteristiche originarie. Esse, costituenti la biosfera, base biologica della vita, erano in massima parte al di fuori dal mercato, poiché considerate ad accesso illimitato: cosa poteva mai limitare l'accesso a un elemento dell'ambiente onnipresente e vasto come l'aria, ci si sarebbe potuto chiedere in epoca preindustriale? Cosa poteva mettere a repentaglio non un lago o un mare costiero, ma un oceano?

  Di sicuro, invece, un tratto di mare costiero, un bosco, un pascolo libero o un lago potevano essere beni contesi dai loro diversi utilizzatori, oppure regolamentati, solitamente sotto regimi tradizionali afferenti all'ampia categoria di quei “beni comuni” afferenti a una comunità locale:

  • storicamente, infatti l’ambiente è per buona parte fatto di conflitti: le risorse naturali

  hanno sempre avuto una pluralità di attori e di usi, in genere in conflitto tra loro. Un bosco, ad esempio, può essere considerato come una miniera di legname, se si concentra l’attenzione sulle dinamiche di mercato, oppure come un ecosistema complesso, caratterizzato da una molteplicità di funzioni (sociali ed ecologiche): nella seconda ipotesi di analisi saranno più chiari i conflitti esistenti tra i suoi differenti utilizzatori, e tra le pratiche di utilizzo peculiari ad ogni gruppo sociale. Tale analisi plurale è stata spesso negata – basti pensare ai rapporti di forza tra colonizzatori e indigeni nell'uso di boschi e foreste, dove spesso i primi non riconoscevano dignità alle pratiche di appropriazione della natura dei secondi, per sostituirle con le proprie, o alle lotte europee tra i privatizzatori di terre contrapposti agli utilizzatori collettivi (solitamente le fasce più deboli della società), in cui si verificavano dinamiche conflittuali simili; 211

  • d'altro canto, però, tali conflitti nascevano in buona parte su terre o acque che erano

  di uso comune, abitualmente regolate da leggi, scritte o non scritte, stabilite dalle comunità locali.

  Tali beni, diffusi sia nell'occidente preindustriale che nelle comunità precoloniali, e presenti ancora in giro per il mondo, non sono né pubblici, né privati. Infatti l'accesso è comunitario, ma non libero: è la comunità locale stessa a regolamentarlo. Un loro

  211 Cfr. Armiero M., “Processi naturali. Conflitti ambientali e conflitti sociali tra XIX e XX secolo” in Civile G., Machetti G. (a cura di), La città e il tribunale, Napoli, Dante e Descartes, 2004.

  sfruttamento del tutto libero comprometterebbe, di fatto, la soddisfazione dei bisogni della collettività.

  I regimi utilizzati nella gestione dei beni comuni afferenti a comunità locali sono

  estremamente differenti in base alla natura del bene in questione, che può assumere le forme più varie (terra, foreste, specchi d'acqua, animali, semi, fino a giungere a beni più estesi come l'aria, o più immateriali come il silenzio). Tra le caratteristiche principali, essi hanno una produttività diffusa anziché concentrata, e, in molti casi, resa bassa o imprevedibile da condizioni naturali (come ad esempio nel caso delle terre soggette a inondazioni periodiche). Alcuni di essi (come il silenzio, l'aria o la diversità genetica), a differenza di quanto accade nell'economia moderna, non sono percepiti come risorse scarse perché si rinnovano di continuo, a meno che non vi siano interventi esterni che rompano l'equilibrio originario. Ma, la principale differenza tra la gestione tradizionale e quella moderna sta nel fatto che i beni comunitari soddisfano bisogni che non sono illimitati: non sono guidati da un sistema orientato alla crescita, anche se non sono statici:possono essere continuamente ridefiniti dal regime che li governa 212 , e possano, in determinate situazioni, andare incontro a crisi o a conflitti.

  La nuova “tragedia dei beni comuni” In occidente, esempi di beni comuni comunitari sono gli “usi civici” dei boschi o dei

  pascoli, entrati in conflitto con la proprietà privata delle enclosures.

  In un suo famoso articolo del 1968, The tragedy of the Commons 213 , preoccupato della crescita della popolazione e dell'impossibilità di definirne un giusto limite tollerabile dalla

  terra, Garret Hardin teorizzò che in tali regimi, che vedeva come a libero accesso, si sarebbe raggiunta la crisi: se per millenni uomini e animali sono stati decimati da malattie, guerre tribali e caccia, nella modernità la crescita non è ugualmente limitata. La conseguenza può essere esemplificata con un esempio: in un pascolo libero, ciascun pastore “economicamente razionale” tenta di massimizzare il suo profitto, aggiungendo man mano sempre più pecore al suo gregge (aumentando, dunque, i ricavi marginali possibili). Proprio la libertà goduta da ciascuno, asseriva il biologo statunitense, avrebbe portato però a costi sociali marginali crescenti, risultanti, in un quadro incontrollato di aumento della popolazione, alla distruzione del pascolo stesso e alla conseguente rovina collettiva. L'articolo di Hardin è stato più volte ripreso e criticato, poiché «nei casi storici, empiricamente ricostruiti da studiosi delle più varie discipline, solo molto raramente si assiste a un regime di accesso realmente aperto alle risorse come quello descritto da

  212 Dal numero speciale di “The Ecologist” Whose common future? Agosto-settembre 1992, riproposto nel numero monografico Ricoveri G. (a cura di), Beni comuni tra tradizione e futuro dei Quaderni della rivista

  “CNS – Ecologia Politica”, Bologna, Emi, 2005, pp. 55-57.

  213 Ci si riferisce all'articolo Hardin G., The tragedy of the Commons, in “Science” n. 162, 1968.

  Hardin, mentre più spesso i commons sono stati caratterizzati da norme di uso e filtri di accesso» 214 . Certo, continuando con Armiero e Barca, si può ammettere che alcuni storici

  ambientali siano caduti nella retorica dei commons come realtà idilliaca; ma occorre tener presente che lo stesso errore è stato fatto dalla parte opposta, ovvero dagli strenui sostenitori della proprietà privata come soluzione a tutti i fallimenti dell'allocazione dei beni. Il funzionamento o il fallimento dei beni comunitari, comunque, non è necessariamente dipeso dall'assenza di diritti proprietari individuali, come dimostrato dalle ricerche sul tema, condotte soprattutto sui boschi, bene comune che si prestava a molteplici utilizzi. 215

  Interessanti, inoltre, sono le considerazioni mosse dalla rivista “CNS – Ecologia Politica”, in cui Giovanna Ricoveri afferma che le idee di Hardin, seppur non applicabili ai commons tradizionali, spesso regolamentati e quindi al riparo dalle leggi spietate dell'economia libera, sono oggi molto utili nell'interpretare le problematiche legate ai beni comuni globali, «sui quali non è possibile identificare diritti comunitari territoriali» 216 : acqua, oceani, atmosfera ad esempio, sono necessariamente beni ad accesso libero. Nel treadmill of production, questi ultimi sono i più soggetti al pericolo di utilizzo illimitato e al conseguente degrado, visto che l'attuale sistema di produzione è capace di mobilitare quantità di risorse talmente ingenti da mettere a repentaglio persino quelle parti della natura considerate, in passato, inesauribili. Esse comprendono, solitamente, le risorse considerate rinnovabili. Oltre a quelle già nominate in precedenza, si è soliti aggiungere oggi a quell'elenco anche il clima, la biodiversità, il paesaggio eccetera, fino a giungere a comprendere anche beni immateriali come la conoscenza 217 . Ma il loro utilizzo massiccio e il loro inquinamento ne ha provocato, di fatto, la perdita dello status di “beni liberi”.

  Proprio questi avvenimenti hanno fatto assurgere il tema ambientale a preoccupazione globale e hanno condotto all'epoca delle grandi conferenze internazionali 218 : è qui che l'idea della difesa dell'ambiente (dapprima a scala locale, poi come bene comune globale) si è istituzionalizzata. Ad ogni modo, lo status di “beni comuni” non ha mai cessato di esistere anche negli ordinamenti moderni, sia nel diritto privato che in quello pubblico: anzi ha assunto nuove forme e nuovo vigore dopo questo periodo, in cui, per di più, ha ricevuto un nuovo interesse e un più diffuso consenso sociale con lo sviluppo di movimenti “verdi”. Oggi infatti, ai diritti di proprietà si

  214 Armiero M., Barca S., op. cit., p. 134. 215 Cfr. ibidem, pp. 135-136. 216 Cfr. Ricoveri G., “Il passato che non passa. Uno sguardo d'insieme”, in Ricoveri G. (a cura di),

  Beni comuni tra tradizione e futuro, numero monografico dei Quaderni della rivista “CNS – Ecologia Politica”, Bologna, Emi, 2005, pp. 11-20.

  217 Si veda ad es. il progetto di Università del bene comune lanciato da un «gruppo internazionale di docenti e di esperti impegnati nella promozione di alternative alla “mercificazione della conoscenza e

  dell’educazione”», al sito internet www.universitadelbenecomune.org.

  218 Si veda il I cap.

  affiancano molteplici limitazioni, che restringono le possibilità di godimento di determinate risorse private in modo da non pregiudicare l'interesse della collettività. Il diritto dell'Unione Europea, ad esempio, riconosce una funzione di pubblica utilità alla terra: recentissime sono le norme che disciplinano limitazioni e incentivi delle politiche agricole europee, che regolano l'uso di determinati pesticidi, vietano l'uso degli Ogm, favoriscono la cura del patrimonio paesaggistico e biologico attraverso programmi di incentivazione delle coltivazioni biologiche, del turismo rurale sostenibile, eccetera.

  Nonostante gli sforzi purtroppo, è però molto difficile che l'ambiente globale sia regolamentato consensualmente ed efficacemente nel consesso internazionale: svariati tentativi per regolamentarne l'utilizzo sono falliti, come nel caso della convenzione sulle foreste proposta nel vertice di Rio del 1992. Anche laddove esistono accordi, tra l'altro, non c'è garanzia di efficacia, dato che il diritto internazionale non è quasi mai vincolante. Ad esempio, i trattati internazionali di Montreal, sull'immissione in atmosfera di gas dannosi per la fascia d'ozono, e di Kyoto, sui gas climalteranti, non riescono a far garantire il rispetto delle quote massime di emissioni inquinanti stabilite: il corretto adempimento degli accordi, infatti, attiene alla volontà politica dei singoli stati, che molte volte, dovendo fronteggiare le cicliche crisi del sistema economico, reputano prioritari gli obiettivi di crescita e rimandano quelli della sostenibilità ambientale: essi, infatti, benché in linea di principio accolti, richiedono comunque impegno e investimenti economici.

  A scala nazionale, poi, legislazioni carenti o succubi delle politiche di

  liberalizzazione e privatizzazione possono lasciare via libera all'appropriazione da parte di pochi di beni utili all'umanità, come nei casi contestati di appropriazione delle fonti idriche da parte di imprese multinazionali. Queste problematiche si riscontrano specialmente nei paesi fortemente indebitati e oggetto delle politiche di “aggiustamento strutturale”, ma non solo.

  A completare il quadro, ci sono casi in cui determinati beni globali non sono coperti

  da convenzioni internazionali, come avviene per oceani e per le risorse ittiche. Il forte depauperamento del patrimonio ittico globale mostra come, in assenza di accordi, gli stati

  e le compagnie private si comportino, in mare aperto, da free rider.

  L'ostacolo maggiore, nella gestione dei beni comuni globali è proprio il comportamento opportunista che i privati, o i singoli stati, possono adottare. Un esempio chiarificatore può essere quello del rimpallo di responsabilità tra i paesi ricchi e le nuove potenze emergenti nell'aumento dei consumi globali, che non fa altro che giustificare comportamenti opportunistici degli uni o degli altri nell'attesa di portare a soluzione i contrasti aperti: i paesi industrializzati, infatti, accusano gli altri di non controllare la forte crescita demografica, causa di un aumento dei consumi in termini assoluti, e di utilizzare tecnologie inquinanti per crescere; i paesi emergenti, dal canto loro, accusano l'occidente L'ostacolo maggiore, nella gestione dei beni comuni globali è proprio il comportamento opportunista che i privati, o i singoli stati, possono adottare. Un esempio chiarificatore può essere quello del rimpallo di responsabilità tra i paesi ricchi e le nuove potenze emergenti nell'aumento dei consumi globali, che non fa altro che giustificare comportamenti opportunistici degli uni o degli altri nell'attesa di portare a soluzione i contrasti aperti: i paesi industrializzati, infatti, accusano gli altri di non controllare la forte crescita demografica, causa di un aumento dei consumi in termini assoluti, e di utilizzare tecnologie inquinanti per crescere; i paesi emergenti, dal canto loro, accusano l'occidente

  Il nodo più difficile da sciogliere, questione cruciale del rapporto tra società e ambiente, resta dunque ancora quello della crescita economica, assurta a obiettivo primario, su cui vi è un consenso diffuso alle varie scale di azione di governo e tra diversi attori della società contemporanea. La difesa del patrimonio naturale comune, invece, è continuamente rimandata: avanzamenti lenti nelle normative internazionali, ed improvvisi arretramenti, genereranno ancora ricadute negative sugli ecosistemi. Le possibili conseguenze future sono ormai assai studiate e modellizzate, nonostante non vi sia ancora pieno consenso sugli scenari futuri che ci aspettano: da una parte a causa di un'effettiva complessità nel prevedere tutti i rapporti di causa-effetto in un sistema complesso qual'è quello naturale, e ancor più, in quello formato dalla relazione tra società

  e ambiente; e dall'altra parte, a causa dei conflitti in corso, nella corsa all'accaparramento di risorse geo-politicamente strategiche. Al momento non c'è, oltretutto, un forte consenso scientifico e sociale tanto forte da guidare l'azione politica verso cambiamenti perentori nelle politiche per l'ambiente: che, come sappiamo, è un luogo di scontro di poteri.