Geografia e rifiuti: gestione, risorse e conflitti

3.2 Geografia e rifiuti: gestione, risorse e conflitti

  Quale approccio e quali approfondimenti possono apportare le discipline geografiche a questo tema?

  Anna Davies, nel suo approccio critico del ruolo della geografia nella governance dell'ambiente, tratta ad esempio il tema del potere, considerando il singolo oggetto di analisi dei rifiuti urbani. Afferma che la loro gestione è divenuta governance, poiché, come accennato in precedenza, l'intreccio di scale e di attori coinvolti conducono a riconoscere, con sicurezza, che questa attività è fortemente intrecciata con la politica del territorio.

  Come altre questioni di governance dell'ambiente, ma in generale come ogni questione

  politica, essa contiene un forte livello di complessità e anche di problemi. Per tale motivo, continua Davies, è necessaria un'analisi geografica che riorganizzi idee e concetti – cosa che le gestioni prevalentemente tecniche non hanno messo in pratica, non avendone i mezzi concettuali a disposizione. 146

  La geografia è una disciplina a cavallo tra le scienze sociali e ambientali. Questa caratteristica permette di utilizzarla per analizzare il problema rifiuti sia dal punto di vista socio-politico che da quello territoriale. E’ infatti utile, nella predisposizione di un sistema di gestione dei rifiuti, la conoscenza del territorio, delle sue caratteristiche fisiche e demografiche (per effettuare, ad esempio, il calcolo del fabbisogno di impianti di smaltimento). Ma sono importanti anche le relazioni che intercorrono tra società e ambiente, i rapporti tra i diversi livelli amministrativi e quelli tra i diversi soggetti coinvolti. Compito della geografia, dunque, può essere quello di apportare un contributo nell'analisi e nel governo di fenomeni complessi, quali sono le relazioni sociali e politiche che insistono su di un territorio, nello specifico nel caso che riguarda la territorializzazione effettuata dalle diverse tipologie di gestione del ciclo dei rifiuti. C'è da considerare, inoltre, che tali relazioni divengono sempre più complicate, poiché attraversate da innumerevoli

  145 Cfr. Martinez-Alier (2009), op. cit. 146 Davies A.R., op. cit., p. 171.

  forme di conflitto, e complesse, perché, all'aumento dei rifiuti e della loro complessità, corrisponde un aumento dei soggetti coinvolti nella gestione del problema o nella condivisione dei rischi, diffusi sul territorio in maniera diseguale.

  Nel suo studio pilota incentrato sulle relazioni politiche nel campo dei rifiuti urbani,

  ad esempio, Davies analizza, attraverso uno studio su casi internazionali di gestione e organizzazione a livello di governo nazionale, i più recenti esiti delle attività di gestione, e presenta tre modelli di governance dei rifiuti verso i quali sembrano aggregarsi gruppi di paesicasi studiati:

  1) The state in governance: la gestione dei rifiuti è ultimamente cambiata quasi ovunque, a causa dei recenti sviluppi sia nell'ambito dei consumi, sia in quello della gestione del potere in epoca di globalizzazione e ridefinizione dei compiti dello stato. In passato i governi detenevano completamente la gestione dei rifiuti, ad esempio con deleghe minori agli enti locali, come i comuni in Italia 147 . Da un sistema industriale messo su dagli stati in epoche più recenti, si è poi passati, quasi ovunque, ad un sistema organizzativo fatto di complesse relazioni tra diverse scale di governo e tra esse e gli attori non statali coinvolti. Questo passaggio può essere causato sia dalla debolezza dello stato, che ha bisogno di delegare a terzi sue originarie responsabilità, sia ad una felice esperienza di rinegoziazione del potere, compartecipato da più attori. Solitamente queste trasformazioni conducono ad una serie di privatizzazioni dei servizi statali (forniti dallo stato nell'epoca della crescita dei rifiuti e del welfare state). Le opportunità di un sistema tale sono condizionate dal funzionamento delle reti che si creano, e dall'effettività del potere di controllo che lo stato conserva.

  2) Governance failure : la sfida che solitamente gli stati non riescono a vincere, è legata alla difficoltà di attuare il primo principio della waste hierarchy, ovvero quello della prevenzione dei rifiuti. Nonostante i vari successi delle politiche di riciclaggio dei rifiuti, attuate in molti differenti paesi o regioni nel mondo, la minimizzazione dei rifiuti, la prevenzione e i cambiamenti nelle abitudini di consumo sono uno scoglio arduo da superare, per tre fondamentali motivi:

  a. se il sistema è privatizzato, spesso è gestito in modo frammentato da numerosi soggetti privati: gli enti locali o centrali trovano difficoltà a gestire la frammentazione, e a fare in modo che tutti gli attori diventino un sistema capace di auto-modificarsi;

  Fino ai primi anni sessanta, dice Giovanni Sistu, alcuni comuni italiani non fornivano alcun

  servizio di raccolta, tanto erano trascurabili i residui che gli italiani producevano nel dopoguerra (cfr. Esu A., Sistu G., Isole, insularità e rifiuti. Tra innovazione e marginalità, Milano, Angeli, 2003, p. 54) servizio di raccolta, tanto erano trascurabili i residui che gli italiani producevano nel dopoguerra (cfr. Esu A., Sistu G., Isole, insularità e rifiuti. Tra innovazione e marginalità, Milano, Angeli, 2003, p. 54)

  

  c. il terzo problema, correlato al secondo, riguarda l'impopolarità delle politiche contrarie alle pratiche consumistiche. Ecco perché si preferisce puntare su soluzioni tecniche sempre nuove (inceneritori più potenti e con filtri nuovi, recupero energetico, pirolisi, trattamenti meccanici e biologici...) che promettono di risolvere il problema stante una uguale o maggiore propensione al consumo.

  3) Governance and Governamentality : siamo in un periodo di “disordine creativo” concernente la governance, in cui coesistono e si mescolano tre modelli base di governo, che sono quello gerarchico e stato-centrico, quello dei sistemi di partenariato tra stato, enti locali e attori non-statali, e quello della “self-governance”, ovvero del trasferimento della responsabilità dal governo ad attori non-statali attraverso processi di privatizzazione e deregulation.

  Naturalmente, nella realtà si verifica spesso una commistione dei modelli presentati, ma questa struttura o framework di lavoro può essere un utile strumento interpretativo del problema rifiuti, nel tentativo di fornire mezzi per mettere ordine nel caos, come conclude Davies. La geografia della gestione dei rifiuti è utile a seguire le impronte spaziali che i residui lasciano, in questo caso, nel governo del territorio, svelandone, attraverso una “geographycally sensitive analysis” le complessità e il dinamismo dei processi in corso 148 .

  Questi temi sono di grande rilevanza geografica: ciononostante, la gestione dei rifiuti non è un oggetto consueto di analisi della disciplina. Il tema in questione è, al giorno d’oggi, molto più complesso che in passato: si rende necessaria un'analisi ampia e interdisciplinare, che tenti di operare una sintesi tra le questioni tecniche e quelle politico- sociali, e dei relativi effetti territoriali. Ciò potrebbe essere possibile in geografia, che ha l'interdisciplinarietà tra i mezzi a disposizione nella sua “cassetta degli attrezzi”.

  Tra i (pochi) lavori geografici italiani che si concentrano specificatamente sul tema della gestione dei rifiuti, attuando un'analisi territoriale, c'è ad esempio quello curato da Esu e Sistu sulla Sardegna 149 . Esso utilizza un tipo di approccio basato soprattutto su dati secondari, che fornisce un’analisi descrittiva molto utile soprattutto alla gestione ordinaria

  e pratico-applicativa dei rifiuti: attraverso un tipico studio geografico delle partizioni

  148 Davies A.R., op. cit., pp. 171-176. 149 Esu A., Sistu G., Isole, insularità e rifiuti. Tra innovazione e marginalità, Milano, Angeli, 2003.

  amministrative e dei rapporti tra le diverse scale geografiche, e quello su quantità di rifiuti prodotta, popolazione residente e morfologia di una data partizione amministrativa, si analizzano le relazioni tra questi fattori con lo scopo di determinare la corretta localizzazione e capienza degli impianti smaltimento dei rifiuti. E’, appunto, uno studio che, pur tenendo in considerazione le criticità riscontrabili a monte nelle politiche sui rifiuti, si concentra soprattutto sulla gestione ordinaria e sull'adatto decupage amministrativo. Si potrebbe ascrivere tra i lavori di geografia economica, funzionale a ottimizzare l’uso del territorio. E' correlato soprattutto alla specificità insulare della Sardegna e al lavoro delle pubbliche amministrazioni, dunque considera come i fattori morfologici e socio-demografici interagiscono con le partizioni amministrative e con le politiche di gestione. La legislazione corrente, comprendente gli obiettivi da raggiungere dall’Unione Europea e dalle leggi di applicazione delle direttive comunitarie è assunta come l'obiettivo verso cui la pubblica amministrazione deve mirare, ragion per cui il lavoro di Esu e Sistu si occupa maggiormente di come raggiungere quegli obiettivi, che oscillano dalla waste hierarchy alla gestione integrata: è uno studio che non si occupa tanto delle problematiche a monte della nascita dei rifiuti, ma “solo” della loro corretta gestione in base alla legge.

  Questa tesi intende invece mettere in primo piano proprio quelle problematiche “a monte” del problema, poiché si reputa che queste, ormai, siano causa di un'impossibilità anche solo di una buona tipologia di gestione “a valle” (o end-of-pipe) dei rifiuti. Tale approccio è interessato maggiormente alle conseguenze ambientali dell’uso delle risorse. In questo ambito di ricerca, molti sono gli stimoli e, per cogliere il problema nella sua interezza, ancora una volta bisogna adottare un metodo di ricerca interdisciplinare. Questo permette di cogliere i nessi con le politiche di sviluppo susseguitesi nelle varie epoche storiche, fino ad arrivare ai giorni nostri. Esse si basano su teorie economiche, tradotte in applicazioni territoriali, derivanti da forme di pensiero filosofico che possiamo far risalire alle origini del pensiero occidentale e alle successive modificazioni. In particolare ci interessano le idee derivanti dalla rivoluzione cartesiana: più recentemente, esse hanno assunto una deriva meccanicistica abbastanza marcata, che ha permesso di guardare alla natura come ad un sistema misurabile che possiede leggi certe e individuabili attraverso l’applicazione del metodo scientifico. Da quando l'economia neoclassica ha trasformato la natura in risorse da sfruttare, ci si è spinti a modificare l’ambiente fino a superare la carrying capacity degli ecosistemi, cioè la capacità di assorbire

  i sottoprodotti della produzione industriale, messa a dura prova anche perché questi scarti sono assolutamente nuovi rispetto ai sottoprodotti della vita biologica.

  In base a questa visuale, il territorio, luogo in cui vivono in connessione la componente ambientale e quella sociale, è stato trasformato in una maltrattata “bestia da In base a questa visuale, il territorio, luogo in cui vivono in connessione la componente ambientale e quella sociale, è stato trasformato in una maltrattata “bestia da

  La decisione sullo sfruttamento di un territorio piuttosto che un di altro, e sulle modalità di sfruttamento (temi rilevanti per la geografia economica), è stata presa spesso in base al calcolo economico dei costi e dei benefici fatto sull’accessibilità fisica alle sue risorse, ma anche in base alle opportunità che offrivano le società in esso presenti: basti pensare al fenomeno della colonizzazione europea dei secoli scorsi, che sfruttava con facilità le risorse di territori assoggettati politicamente, o alla delocalizzazione delle imprese dei paesi industrializzati, che trovano condizioni più favorevoli per abbattere i loro costi (manodopera a basso costo, sgravi fiscali, ma anche legislazione sociale ed ambientale più permissiva). Solo dagli anni '60-'70 dello scorso secolo sono nate leggi che impongono alle imprese di inserire alcuni costi ambientali all’interno dei loro costi di produzione. Ciò è avvenuto prima nel mondo occidentale dove naturalmente l'industrializzazione si è sviluppata di più, e, solo recentemente, si diffonde a macchia di leopardo anche in altri paesi. La diffusione è però lenta e non è ovunque portata avanti con determinazione, poiché le priorità economiche condizionano anche la legislazione ambientale e gli sforzi per applicarla.

  Sempre nei paesi occidentali sono nati i primi movimenti di protesta contro l'inquinamento, spesso sulla scia di notevoli disastri ambientali (come quello di Seveso in Italia) o di studi e denunce sulle conseguenze di alcuni tipi sostanze (come nel caso dell'uso del ddt nel comparto agricolo intensivo statunitense, o in seguito in quello dell'amianto ). Quando gli abitanti delle comunità locali si sono organizzati per difendere il proprio ambiente (nel nord come nel sud del mondo), si è verificato un paradosso, all'interno delle stesse lotte sociali eo nello stesso pensiero ambientalista: i movimenti di base, specie quelli operai, solitamente sotto il ricatto occupazionale hanno sempre accettato un certo livello di inquinamento interno alla propria fabbrica, o riguardante il proprio ambiente di vita. Ma in molti altri casi, la salute e l'ambiente sono stati considerati più importanti, e le lotte sociali sono – consapevolmente o meno – divenute “ambientaliste” e contrarie a un certo tipo di progresso economico che invece giustificava un dato livello di l'inquinamento con possibili aumenti dell'occupazione e con la crescita economica, modello ritenuto l'unico possibile in cui operare. E' nato, quindi, un interesse “dal basso” verso i territori, quello che viene chiamato, dagli scienziati sociali, people's geography. Da cosa deriva?

  L'approvvigionamento delle risorse naturali, è storicamente una delle cause principali dei conflitti. Anche i modelli di consumo interagiscono con l’utilizzo delle

  150 Sul concetto di territorio si veda il libro Magnaghi, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri,

  risorse, e quindi sono tra le cause dei conflitti ambientali. Inoltre, in una “società del rischio” come la nostra, così definita da Ulrick Beck, la nascita dei conflitti non si verifica solo per la diseguale distribuzione delle risorse, ma anche dei rischi che il progresso tecnologico comporta. I rischi sono ormai globalizzati, intrinseci ai processi di produzione

  e ineliminabili, poiché gli apparati produttivi sono oggi talmente complessi da avere un'alta propensione al rischio (maggiori sono i componenti o le sostanze da tenere sotto controllo, maggiori saranno i rischi di incidente o di conseguenze negative per l'ambiente

  e la salute), mentre la tendenza a risparmiare sui costi di produzione non permette di creare sistemi di controllo sempre sicuri. 151

  Lo studio dei conflitti sull’uso delle risorse naturali, e anche sulla distribuzione dei rischi, trova nell’analisi dei movimenti ambientalisti di Martinez Alier, un interessante approccio metodologico, relativamente nuovo (o poco conosciuto). Esso lega le lotte per l’ambiente a quelle per la sopravvivenza. Tale approccio, detto dell’ecologismo popolare o dell’ecologia dei poveri, ha il merito di svelare le contraddizioni degli approcci economici attuali alla sostenibilità ambientale - quelli che Martinez Alier stesso bolla come fedeli al “vangelo dell’ecoefficienza” 152 - e di fornire una chiave di lettura dei conflitti ambientali applicabile sia in ambito urbano che rurale. Questa può essere utilizzata per spiegare molte delle lotte sociali che interessano la gestione dei rifiuti, dando un apporto interessante alla possibilità di comprendere il rapporto tra popolazione e percezione del territorio. La difesa dell’ambiente, infatti, nasce in questi casi sempre più spesso dal basso: gruppi di cittadini si organizzano contro i poteri forti (governo, grande impresa) che portano avanti l’idea di una gestione del territorio razionale, efficiente e progressista, ma che, in nome del progresso e dell’interesse nazionale impongono che alcune comunità territoriali - spesso quelle più deboli – debbano essere sacrificate. D'altronde, questo approccio ha varie affinità o punti di incontro con quello di altri studiosi che si sono occupati di conflitti ambientali: in Italia, ad esempio, Faggi e Turco 153 , e Bobbio e Zeppetella 154 hanno evidenziato come i conflitti ambientali, in tutti i paesi industrializzati, derivano spesso da localizzazioni di impianti inquinanti non voluti dalle popolazioni locali, che, il più delle volte, sono la parte debole del conflitto. Il tema è ancora una volta l'ineguale distribuzione del rischio. L’uso non condiviso del territorio fa emergere alcuni valori nella popolazione, che Hevitt 155 definisce come people’s geography, cioè quell’intreccio

  151 Cfr. Beck U., Risk society. Towards a new modernity theory, culture society, London, Sage, 1992 (ed. originale 1986)

  Cfr. Martinez-Alier J., L’ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Jaca Book, Milano,

  2009. Sull'argomento si ritornerà nel 3° cap.

  153 Curatori del libro Conflitti ambientali. Genesi, sviluppo, gestione, Milano, Unicopli, 1999. 154 Curatori del libro Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni locali, Milano, Angeli, 1999. 155

  Hevitt K., Region of risks. A geographical introduction to disaster, Longman, Harlow, 1997 (cit. in

  Faggi P., Turco A. (a cura di), Conflitti ambientali. Genesi, sviluppo, gestione, Milano, Unicopli, 1999, p. 11) Faggi P., Turco A. (a cura di), Conflitti ambientali. Genesi, sviluppo, gestione, Milano, Unicopli, 1999, p. 11)

  neologismo utile ad includere tutti i legami affettivi degli esseri umani all’ambiente fisico 157 . Questi cozzano con il cosiddetto treadmill of production, la continua accelerazione

  della produzione che serve a mantenere il benessere sociale ragginto o a produrre ulteriori quote marginali di ricchezza. 158 Esso unisce dunque gli interessi dell’impresa privata come

  dello stato e dei sindacati dei lavoratori, legittimato «dal credo sociale che il benessere pubblico si raggiunga attraverso la crescita economica» 159 . Ma, come sottolineato già negli

  anni ottanta da Shnaiberg 160 , tale sistema è ricco di scompensi. Per prima cosa, per mantenerne costante il ritmo si richiedono investimenti sempre crescenti che, però,

  fruttano molto più agli shareholder (investitori di capitali e manager) che non agli stakeholder (lavoratori e comunità). Anzi, questi ultimi, nella globalizzazione, rischiano ancor più facilmente il posto di lavoro, con le delocalizzazioni dell’impresa. Poi c’è la questione della capacità degli ecosistemi di assorbire gli effetti collaterali della crescita. Essi, dice Shnaiberg, vengono spesso combattuti con gli stessi strumenti del treadmill of production , ovvero con la ricerca di ulteriore crescita, creando conseguenze paradossali. E infine, come messo in evidenza dagli studiosi dei conflitti ambientali, vi sono gli effetti della distribuzione spaziale spesso ineguale dei costi ambientali e sociali del sistema.

  I conflitti ambientali tra la popolazione locale e i poteri forti si combattono spesso su di una valutazione del rischio totalmente discordante, e basata, l’una, su una presunta razionalità scientifica, e l’altra, viceversa, sul senso comune, spesso non fondato su basi

  scientifiche. 162 D’altronde, vi sono studiosi come Funtowicz e Ravetz che sostengono che la scienza “normale”, in situazioni di alta complessità e incertezza non riesce più ad essere

  utile: essa si basa su conoscenze specialistiche e sul riduzionismo, che non funzionano bene nel caso in cui, nel valutare ad esempio i rischi di un’opera da compiere in un determinato territorio, vi siano in ballo valori e interessi forti, e decisioni importanti da prendere in fretta. Gli autori, nella loro nuova proposta epistemologica, quella della scienza “post- normale”, propongono di ampliare le consultazioni sull’uso del territorio alla comunità che lo vive, e che porta la sua conoscenza dovuta all’esperienza. In tal modo si tiene conto, nell’impossibilità di giungere a certezze scientifiche sugli impatti di una qualsivoglia

  156 Cfr. Faggi P., Turco A. op. cit., pp. 11-12. 157 Cfr. Tuan Y.F., Topophilia, A study of environmental perception, attitudes and values. Prentice Halls,

  Englewood Cliffs, 1974, p. 93. Si vedano in particolare i capp. 8 e 9.

  158 Cfr. Gould K.A., Pellow D.N., Shnaiberg A., The treadmill of production, injustice and unsustainability in the global economy , Paradigm Publishers, 2008

  159 Faggi P, Turco A., op. cit., p.12. 160 Così come esplicato nel testo di Gould, Pellow, Shnaiberg, op. cit. 161

  Cfr. Shrader-Frechette, Valutare il rischio. Strategie e metodi di un approccio razionale, Milano,

  Guerini, 1993 (ed.or. 1991)

  162 Cfr. Martinez Alier, op. cit.,p. 57 e segg.

  opera, di più informazioni possibili, cercando di arrivare a conclusioni sagge e condivise, in base al principio guida di precauzione. 163

  Lungi dall’indicare in uno di questi metodi la soluzione a tutti i problemi, essi possono però aiutare a guardare con occhiali diversi i problematici casi concreti – allargando o restringendo la scala di analisi, combinando diversamente le visuali dei differenti attori coinvolti. Un approccio che tenga conto delle differenze, probabilmente, può sviluppare maggiori anticorpi contro i fallimenti della visuale unica.