Alle origini dei rifiuti: l’altra faccia della produzione

2.1 Ambiente e problemi socio-economici

  La questione dell’utilizzo delle risorse naturali si lega fortemente agli squilibri economici e sociali a scala mondiale. L’utilizzo delle risorse del pianeta è molto sperequato, e tali sperequazioni creano tutt’oggi conflitti armati e giochi geopolitici complessi. Facile è pensare ai conflitti per il petrolio in Medio Oriente, che muovono alleanze e interessi geo-strategici ben più ampi, che coinvolgono tutto il mondo industrializzato. Ma anche i grandi temi ambientali quali clima, biodiversità, erosione dei suoli eccetera dipendono dall’uso dello spazio fisico e dalla spartizione delle risorse . Le modalità di utilizzo e di distribuzione delle stesse, durante il novecento, hanno alimentato in maniera crescente le differenziazioni mondiali negli indicatori di ricchezza e di sviluppo umano al livello mondiale: i progressi tecnologici del mondo industrializzato hanno condotto verso un utilizzo via via più massiccio di materia ed energia, causando un metabolismo mondiale in grande crescita e fortemente disuguale. La questione ambientale è

  39 Ibidem. 40 Cfr. ibidem. 41 Prova ne è la stagione delle grandi conferenze mondiali sui problemi ambientali, iniziata nel 1972

  con la Conferenza di Stoccolma sull’“Ambiente umano”, al termine della quale prende vita l’UNEP (United Nation Environment Program).

  dunque più complessa perché comprende anche le problematiche economiche di gestione dell’ambiente, basate su rapporti di potere non equamente distribuiti nel mondo.

  Dunque, esaminando brevemente i passaggi fondamentali della sfera economico- sociale dal secondo dopoguerra, possiamo affermare che l’idea forte dell’economia neo- classica dell’epoca era quella del progresso lineare illimitato, che si sarebbe diffuso in tutto il globo. Negli anni sessanta, Rostow, economista statunitense, teorizzò che in tutti gli stati si dovessero attraversare alcune fasi di sviluppo ben definite (basandosi deterministicamente sulle vicende storiche dei paesi industrializzati). Queste avrebbero condotto ad abbandonare la società tradizionale, vista in termini negativi come limitativa delle opportunità, e ad incamminarsi in un processo di modernizzazione della società, il cui obiettivo ultimo era quello di arrivare alla fase dei «grandi consumi di massa» (in opposizione al modello stadiale di Marx dove si passava dal modo di produzione borghese a quello comunista). Questo modello ebbe molto successo, benché schematico, deterministico e uguale per tutti i paesi 42 . Rostow fu smentito dagli eventi, così come la teoria del trickle down effect o effetto sgocciolamento, secondo cui il benessere si sarebbe diffuso, poco per volta, dai paesi più avanzati verso gli altri, attraverso la continua crescita economica. In questo periodo era in atto una mitizzazione della crescita economica, vista come soluzione di tutti i mali: gli squilibri economici regionali o areali apparivano come momentanei scostamenti anomali dal modello neoclassico dell’equilibrio economico, equilibrio che, nel lungo periodo, si sarebbe ripristinato. 43

  A partire dagli anni sessanta, però, si cominciarono a constatare i fallimenti del

  pensiero economico dominante. Alcuni studiosi, in parte appartenenti alla periferia, si resero conto che le teorie neoclassiche si basavano su una realtà idealizzata, prescindente

  da moltissimi fattori presenti nell’economia reale (economie interne ed esterne di scala, asimmetria nelle relazioni tra soggetti economici in competizione, divario nell’allocazione dei fattori di produzione e delle risorse ecc.). Nacquero perciò teorie dello squilibrio economico , che, «scoprendo» le polarizzazioni dello sviluppo (con Perroux), giunsero a teorizzare la possibilità (con Hirschman) o la imprescindibilità (con Myrdal) del processo di causazione circolare e cumulativa dello sviluppo economico (e sociale): più sviluppata è un’area, maggiori investimenti attrarrà, e dunque anche nuovi progressi e maggiore crescita economica. Tra gli anni ’60 e ’70, poi, il sistema di relazioni di mercato vigente verrà ricondotto dagli economisti neomarxisti ad un disegno ben preciso, architettato dal centro 44 per perpetuare lo sfruttamento della periferia nel sistema mondo. Tali critiche sono contestate da coloro che sono ancora fiduciosi nella possibilità di avanzamento dei paesi

  42 Citato in Tinacci Mossello M., op. cit., pp. 35-36. 43 Per una rassegna articolata degli studi economici del dopoguerra sul tema degli squilibri

  geografici dello sviluppo si rimanda al cap. III “Lo sviluppo economico regionale” del libro Conti S., Geografia economica. Teorie e metodi , Torino, Utet, 1996.

  considerati sottosviluppati, ad esempio attraverso alcune forme di aiuto pubblico allo sviluppo (Aps, consistente in prestiti agevolati, trasferimento di tecnologie o donazioni forniti dai paesi membri del Dac 45 direttamente o dalle istituzioni finanziarie internazionali

  da loro finanziate 46 ). Dunque, ancor oggi, mutatis mutandis, le teorie di Rostow hanno qualche seguito. Nonostante il dibattito sia acceso, e le critiche verso l’attuale modello di

  sviluppo siano in aumento, specie in seguito ai movimenti del ’68 e poi a quelli “di Seattle” sulla globalizzazione economica 47 , le imprese multinazionali e i paesi membri del G8,

  ovvero gli enti che dominano l’economia internazionale non paiono fare scelte convinte verso nuove strategie di sviluppo e di redistribuzione delle risorse. Le politiche internazionali insistono sempre sulla necessità di perseguire la crescita economica e l’apertura dei mercati (il tutto bilanciato da una certa dose di promesse di aiuti ai paesi poveri e impegni a lungo termine per ridurre l’impatto ambientale). Anche per la recente crisi economica della prima metà del 2009, gli otto leader hanno ribadito, nell’ultimo incontro del G8 dell’Aquila del luglio 2009, l’importanza dell’apertura dei mercati come già proposto nel Doha round del Wto, incontro negoziale interministeriale che ebbe inizio in Qatar nel 2001 e che non si è ancora concluso: ha attraversato molti fallimenti e fasi di stallo lungo gli anni. I numerosi tentativi di negoziazione sulla liberalizzazione del commercio sono falliti a causa del disaccordo tra paesi ricchi e grandi paesi emergenti, in particolare sul tema del commercio in agricoltura 48 .

  Se analizziamo le differenze economiche mondiali con la semplicistica analisi bipolare SudNord (però valida come dato di massima), seguendo la tradizionale linea divisoria di Willy Brand 49 , le due grandi aree individuate continuano ad essere economicamente assai sperequate. Questa semplice analisi acquista valore se si considera che, per lo più, gli squilibri tra le due aree sono in crescita: nel 1700 lo scarto tra paesi ricchi e poveri era calcolato in uno a due; alla fine dell’800 era aumentato a uno a cinque,

  44 Centro, semiperiferia e periferia sono categorie utilizzate da Wallerstein negli anni ’70. V. nota precedente.

  45 La Development Assistance Committee (Dad) dell’Oecd è un forum dei maggiori paesi donatori. Sono attualmente 22 più la Commissione europea e fanno tutti parte della Triade globale.

  46 In primis Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale 47 Per una sintetica descrizione del movimento “di Seattle” o di “Porto Alegre” (definito anche, con

  una dizione non troppo esplicativa, come movimento No-global). Si veda l’Introduzione a p. 6.

  48 Cfr. “Accordo sul Doha Round nel 2010. Già pronto il comunicato del G8”, in Affari e Finanza, settimanale inserto de La Repubblica del 7 luglio 2009.

  49 Il concetto di Sud del mondo ha assunto un significato che prescinde dalle coordinate geografiche per rappresentare gli squilibri internazionali, dato che, grossomodo, i paesi ad economia avanzata sono

  posizionati nell’emisfero settentrionale. Deriva dalla linea Brand, tracciata dal cancelliere tedesco nel suo ruolo di presidente della Commissione indipendente per i problemi dello sviluppo internazionale (1980). Con “i Sud del mondo” ci si riferisce ad aree del mondo con indicatori economici e di sviluppo umano bassi, ma oggi sempre più variegati, contrapposti al Nord, che comprende invece i paesi della triade globale (Europa occidentale, Nord America, Giappone) (cfr. Vanolo A. Gli spazi economici della globalizzazione. Geografie del commercio internazionale , Novara, Utet, 2007, p.28) posizionati nell’emisfero settentrionale. Deriva dalla linea Brand, tracciata dal cancelliere tedesco nel suo ruolo di presidente della Commissione indipendente per i problemi dello sviluppo internazionale (1980). Con “i Sud del mondo” ci si riferisce ad aree del mondo con indicatori economici e di sviluppo umano bassi, ma oggi sempre più variegati, contrapposti al Nord, che comprende invece i paesi della triade globale (Europa occidentale, Nord America, Giappone) (cfr. Vanolo A. Gli spazi economici della globalizzazione. Geografie del commercio internazionale , Novara, Utet, 2007, p.28)

Tab. 1. Crescita del divario tra Nord e Sud del mondo

  Anni

  Divario economico tra Nord e Sud

  Fonte: elaborazione da Rist G., Lo Sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, p. 51.

  Oggi il divario economico tra alcuni significativi agglomerati geopolitici può essere agevolmente rappresentato dalle statistiche che riguardano la ricchezza economica: Stati Uniti e Canada raggiungono i 17.000 miliardi di dollari all’anno, l’Unione Europea “dei venticinque” 8.500 miliardi, il Giappone 4.300 miliardi, l’Australia e la Nuova Zelanda 450 miliardi. Tutti insieme, questi paesi «si dividono il 78 del PNL mondiale, lasciando solo 6.700 miliardi all’Asia [Giappone escluso], all’Africa e all’America Latina. In cambio, questi ultimi tre continenti raggruppano l’85 della popolazione mondiale, contro il 15 dei paesi sviluppati. In questo quadro, non c’è da stupirsi degli enormi scarti di PNL per abitante tra gli stati più ricchi e quelli più poveri» 50 : il reddito pro-capite, nelle statistiche, passa da quote maggiori di 30.000 dollari all’anno per i paesi ricchi a 100-200 dollari per quelli in fondo alla lista, come la Repubblica democratica del Congo o l’Etiopia.

  La povertà non si misura solo a livello economico. Ci sono disuguaglianze che concernono tutte le attività umane, e vi sono abbondanti studi su altrettanto abbondanti parametri di riferimento quali «la salute, la mortalità, l’alimentazione, i consumi, l’educazione, l’alfabetizzazione, l’insegnamento ad ogni livello, il confort quotidiano, l’accesso alla cultura, il turismo, l’organizzazione del tempo libero, il rapporto con la natura, le grandi catastrofi, le carestie, le guerre ecc.» 51 Per quanto concerne la nostra ricerca, è importante notare la sperequazione nello sfruttamento delle risorse naturali e nel consumo. Sui consumi, dati significativi emergono dal Vertice di Johannesburg del 2002: il

  15 della popolazione mondiale, quella che vive nei paesi ad alto reddito, è responsabile del 56 dei consumi mondiali complessivi, mentre il 40 più povero raggiunge solo l’11 degli stessi. 52 Considerando che all’inizio del 2000 la popolazione mondiale ha raggiunto (e

  50 Frémont A., Vi piace la geografia?, Roma, Carocci, 2008, p. 201. 51 Ibidem, p. 202. 52 Dipartimento per la Pubblica Informazione delle Nazioni Unite, documento di sintesi del Vertice

  Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile – Johannesburg 2002, maggio 2002, in www.onuitalia.it.

  superato) i 2 miliardi, queste percentuali significano che poco più di 900 milioni di persone rappresentano il 56 del consumo mondiale, mentre, con l’11 dei consumi se lo dividono quasi due miliardi e mezzo di abitanti. I dati, e il loro andamento storico,

  dimostrano come il raggiungimento del mito del progresso occidentale sia ormai relegato

  nel novero delle illusioni, stante l’attuale situazione geopolitica mondiale. Sarebbe necessaria, infatti, una crescita economica tale da portare agli stessi livelli di consumo del Nord i paesi del Sud. Ma sappiamo, osservava Rist nel 1996, utilizzando dati del vertice di Rio del 1992, che «il 20 degli uomini consuma l’80 delle risorse del pianeta, [quindi] non è possibile mobilitare almeno il quadruplo delle risorse» 53 per eliminare il divario. La crescita, infatti, non può essere infinita, a causa dei limiti ambientali riconosciuti ormai quasi da tutti 54 . Una conferma di quanto detto possiamo trovarla nel calcolo dell’impronta ecologica mondiale. Questo indice, seppur consista in un aggregato di indicatori e, per come è strutturato, non può essere del tutto preciso, dà però un’idea delle tendenze in atto: lo sfruttamento crescente delle risorse naturali, già dalla metà degli anni ’80, causava un eccesso di domanda annuale di risorse rispetto alla possibilità delle stesse di rigenerarsi. 55

  53 Rist G., Lo Sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, (ed originale del 1996), p. 50.

  54 Nel 1972, anno di pubblicazione di The limits to growth, la questione del limite non era affatto

  scontata, e, anzi, il rapporto venne criticato (per molti versi a ragione, col senno di poi) per le sue previsioni altamente catastrofiste. Ma, nell’epoca delle grandi conferenze internazionali sull’ambiente e sullo sviluppo questo concetto fu accettato, tanto da creare il paradigma dello sviluppo sostenibile. Nonostante ciò, non sono state prese azioni decisive per porre limiti forti alla crescita economica divoratrice di risorse naturali.

  55 Si vedano i lavori del Global Footprint Network, istituto diretto da Mathis Wackernagel, allievo di William Rees. Entrambi sono i creatori dell’indicatore ecological footprint. Utili informazioni al sito internet

  http:www.footprintnetwork.org.

Fig. 3 Crescita dell’impronta ecologica mondiale e possibili tendenze future

  a) secondo il WWF b) secondo il Global Footprint Network

  a)

  b)

  Fonte: siti internet del WWF, www.panda.org e del Global Footprint Network, www.footprintnetwork.org. Nota: sull’asse delle ordinate è indicato il numero di pianeti necessari a fornire le materie prime e ad assorbire i rifiuti prodotti per anno. Nel calcolo A. si nota come l’impronta ecologica del genere umano avrebbe superato la biocapacità del pianeta tra gli ani ottanta e novanta. Nel calcolo B. si ipotizza che se l’andamento dei consumi rimanesse uguale, verso metà dell’attuale secolo sarebbero necessari due pianeti terra per fornire risorse e assorbire le scorie del nostro sistema economico.

  Questo trend è in aumento, e solo un cambio di rotta nei consumi potrebbe eliminare rischi per l’ambiente e gli esseri viventi. Ma ‘tornare indietro’ diviene sempre più complicato considerando il peso dei conflitti internazionali in atto per l’accaparramento delle risorse chiave sia tra le potenze tradizionali, sia tra queste ultime e quelle nuove: il desiderio di molti paesi emergenti di ripercorrere le tappe dello sviluppo che sono state dei paesi occidentali è forte, come ad esempio testimonia l’attuale dinamismo cinese in Africa e Asia alla ricerca di paesi fornitori di materie prime con cui fare accordi.

  Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla desiderabilità e sulla bontà del progresso e dello sviluppo economico e sulla sua ineluttabilità, mentre numerose sono le applicazioni pratiche delle teorie economiche standard 56 . Una delle ultime forme di applicazione delle teorie economiche in favore della crescita economica si ritrova spesso nelle iniziative di cooperazione internazionale, che, nei suoi differenti aspetti e con le sue diverse anime, prova a diffondere lo sviluppo economico nelle aree sottosviluppate. Gilbert Rist, autore che fa una critica sistematica dello sviluppo, parla di un “sistema dello sviluppo” 57 . Dato che «da due secoli a questa parte, l’insieme dei beni messi a disposizione degli uomini ha conosciuto una crescita prodigiosa, che il progresso delle tecniche ha reso più facile l’esistenza di coloro che ne beneficiano, [e che] la speranza di vita, complessivamente, è notevolmente aumentata» 58 , si pensa che tale sistema possa estendersi all’insieme del pianeta. Ma il problema dell’ideologia dello sviluppo, secondo Rist, sta nel combinare insieme il vero e il falso: si crede possibile una diffusione dello sviluppo senza tener conto del divario incolmabile tra le disuguali aree del mondo. Per i fautori dello sviluppo, continua Rist, «bisogna fare come se la credenza fosse ragionevole e l’obiettivo raggiungibile» 59 . Il progresso rimane dunque possibile solo per una minoranza della popolazione mondiale, mentre la credenza individuata da Rist si basa su «una visione evoluzionistica della storia (al termine della quale tutti dovrebbero giungere allo stesso sviluppo) e […] una rappresentazione asintotica della crescita (considerata come il fondamento dello sviluppo)»: ma, dato che il tempo scorre allo stesso modo per tutti, raggiungere i paesi ricchi è impossibile, mentre sarà invece normale una tendenza all’aumento del divario. Questo aumento si è verificato, storicamente, come mostrano i dati precedentemente illustrati.

  Un altro aspetto cruciale per meglio comprendere le molte implicazioni che ha lo sviluppo è quello culturale. «Il discorso sullo sviluppo si interseca in larghissima parte

  56 Definite così da Georgescu-Roegen. 57 Cfr Rist G., op cit. Si vedano le pp. 49 e segg., e il cap. 2 “Le metamorfosi di un mito occidentale”. 58 Ibidem, p. 50. 59 Ibidem.

  [con] quello sulla diversità culturale», come afferma Coppola 60 , e l’idea di progresso, contrapposta al concetto di arretratezza, ha origini storiche. Già era presente nel pensiero

  di importanti popoli o imperi antichi, come quello dei Greci e dei Romani, nonché dell’antica Cina, dove il raggiungimento di raffinate culture o capacità amministrative induceva a considerare gli altri popoli come “barbari”. Infatti, l’etnocentrismo della civiltà europea fu un altro solido argomento per negare la possibilità che altri popoli potessero raggiungere lo sviluppo inteso come quello odierno, basato su scienza e tecnica. L’etnocentrismo si basò, a lungo, sul determinismo: le caratteristiche naturali dell’ambiente, o quelle presunte di alcune “razze” umane, fornivano una giustificazione al mancato raggiungimento dello sviluppo di alcuni popoli. In questo modo si collocavano «fuori dalla storia le vicende delle regioni in ritardo» 61 : si negava la possibilità che le varie

  e antiche forme di vita associata di alcuni popoli, capaci anche di produrre notevoli organizzazioni amministrative e splendori artistici, potessero mai assumere atteggiamenti idonei allo sviluppo economico e sociale, “liberazione prometeica” dell’Occidente. 62 «Al tempo stesso, una simile interpretazione spianava la strada alla necessità che i tentativi (blandi) di recupero fossero affidati a un duplice sforzo sostenuto dai soggetti esterni colonizzatori: da un canto, per fronteggiare per quanto possibile – con le tecniche evolute

  da loro padroneggiate – gli ostacoli frapposti da un ambiente inospitale, dall’altro per acquisire le popolazioni locali ai valori e ai comportamenti più prossimi a quelli occidentali, visti come i soli aperti al progresso e alla valorizzazione delle risorse locali» 63 , scrive ancora Coppola. Lo sforzo fatto per “recuperare” quelle popolazioni, seppur blando, ha raggiunto come risultato la diffusione dei valori occidentali, aprendo la strada al mercato capitalistico, in cerca di sbocchi sempre nuovi per la sua produzione. Questo è avvenuto spesso senza considerare le specificità locali: infatti, «in larga parte del mondo e per non piccolo lasso di tempo il termine “sviluppo” si è tragicamente associato […] a forme più o meno esplicite di sudditanza politica e, soprattutto, di stravolgimento culturale. Questo è accaduto in primo luogo per l’irruzione in molti di tali spazi di logiche di sfruttamento delle risorse profondamente diverse da quelle coltivate lungo l’arco dei

  secoli dalle comunità locali» 64 . Tali logiche si sono verificate con la diffusione del

  capitalismo, in cui alcuni vedono «il fattore di maggiore responsabilità degli attuali problemi ambientali». Secondo lo storico Bevilacqua essi non vanno molto lontano dal

  60 Coppola P., Dimensione culturale e diversità, in Boggio F., Dematteis G. (a cura di), Geografia dello sviluppo. Diversità e diseguaglianze nel rapporto Nord-Sud , Torino, Utet, 2002, pp.102 e segg.

  61 Ibidem, p.105. 62 Cfr. ibidem, p. 105. 63 Ibidem, p.105. 64 Ibidem.

  65 vero 66 . Le culture coloniali “dell’oppressione” , che hanno sconvolto gli assetti territoriali e sociali di molte popolazioni (ad es. riorganizzando territori e lavoro intorno a piantagioni

  e miniere), sono legate alla diffusione di questo nuovo modo di produrre e di consumare, in cui, «come già avevano osservato Marx ed Engels nel Manifesto del Partito comunista del 1848, “spinta dal bisogno di sempre nuovi sbocchi per le proprie merci, la borghesia corre, per invaderlo, tutto l’orbe terraqueo”» 67 . D’altronde, la cultura capitalistica di sfruttamento della natura era diffusa anche nell’Unione Sovietica, paese a economia pianificata dall’alto che si contrapponeva all’economia di mercato: ma, nell’epoca della Guerra fredda, l’URSS competeva sullo stesso piano dell’Occidente nel campo dell’industrializzazione di massa e dunque in quello dello sfruttamento delle materie prime.

  Dunque, i più gravi problemi dell’ambiente, quelli a carattere globale, iniziano proprio col modo di sfruttamento capitalistico delle risorse naturali 68 : in questa fase

  storica, infatti, la produzione si slega dai bisogni immediati di consumo e si lega invece alla volontà di raggiungere i profitti più elevati possibili, creando, anche artificialmente, una nuova domanda di beni che sono sempre meno di prima necessità. E’ in questo contesto, con l’idea che la natura può essere sfruttata in modo illimitato, che i problemi ambientali divengono anche sociali: sia nei confronti delle generazioni future, che potranno non avere accesso allo stock di risorse naturali attuali, sia nei confronti di quelle presenti, sempre più coinvolte in conflitti ambientali per l’utilizzo delle risorse.

  Con il sistema economico capitalista, dunque, si introduce una frattura di tipo sia qualitativo che quantitativo nella pressione esercitata dall’uomo sul mondo fisico attraverso l’economia – in cui l’Europa ha ottenuto un enorme successo economico potendo contare, «per il proprio sviluppo, sui territori di altri continenti [e] sulle risorse dell’intero pianeta» 69 . Il capitalismo è quindi il «possente motore del progresso della nostra epoca. Non è solo un modo di produzione, ma ha creato culture, mentalità, comportamenti collettivi che hanno marcato, come mai era accaduto in passato, l’impronta degli uomini sulla Terra» 70 . Culture, mentalità e comportamenti che spesso sono stati applicati al di fuori del contesto in cui sono stati elaborati: l’esportazione di modelli economici dominanti, considerati a lungo perfetti a causa del loro successo in alcuni distretti industriali, si è scontrata però con le culture dello sviluppo elaborate localmente,

  65 Cfr. Bevilacqua P., op. cit., si veda l’Introduzione, e le pp. 23 e segg. 66 Come definite nel saggio di Coppola citato nella nota 68. 67 Bevilacqua P, op. cit., p. 24. 68 Bevilacqua (ibidem), ad es. (come vedremo nel § successivo) afferma che anche in passato vi sono

  stati grandi sconvolgimenti ambientali (come la distruzione dei boschi in Libano), ma nota che le grandi questioni ambientali dell’epoca riguardavano solo aree circoscritte, mentre la natura, a livello globale, era nel complesso preservata.

  69 Bevilacqua P., op. cit, p. 24. 70 Bevilacqua P., op. cit, pp. 27.

  provocando molte volte uno scollamento tra modelli e pratiche. Così è accaduto anche nel nostro Mezzogiorno d’Italia, dove una certa fase di industrializzazione decisa dal governo centrale ha creato uno sviluppo avulso dalla realtà culturale, che ha poi lasciato parecchie “cattedrali nel deserto” 71 . Oggi però, in epoca di globalizzazione, presunto fenomeno “omogeneizzante”, vi sono varie risposte locali che riescono a metabolizzare le spinte esterne, rileggendole in chiave locale eo respingendone le caratteristiche incompatibili con “l’organizzazione interna del sistema locale” 72 . Questa constatazione può tornarci utile anche nei capitoli seguenti che analizzeranno le alternative sostenibili e locali alla gestione dei rifiuti, che varie volte si legano a visuali alternative allo sviluppo economico dominante.

  Per descrivere i modelli di sviluppo si tende quasi sempre a fare una distinzione duale tra nord e sud, centro-periferia, paesi industrializzati e PVS, eccetera. Pur consapevoli che le descrizioni del mondo come sistema duale sono semplicistiche, possono ancora aiutarci nel rilevare che il divario tra la minoranza di popolazione più ricca e la maggioranza più povera è comunque in aumento, mentre ancora il numero di indigenti è alto, e cresce in termini assoluti (anche a causa dell’aumento demografico).

Fig. 4. La divisione economica tra Nord e Sud del mondo secondo la “linea Brand”

  Fonte dell’immagine: Wikipedia

  C’è da dire che, attualmente, si sono verificati numerosi cambiamenti nel mondo a sud della linea Brandt, che hanno reso ancor più complessa ed eterogenea la situazione mondiale dei livelli di sviluppo economico e umano di quanto non lo fosse già in origine. Alcuni dei paesi con bassi indicatori economici sono riusciti, legando le loro economie al

  71 Cfr. Coppola P., op. cit. 2002, pp. 106-107 e 113. 72 Nella teoria dei sistemi usata per descrivere i fenomeni di sviluppo economico, un sistema locale

  solido è quello che riesce a mantenere intatta la propria struttura pur modificandosi nel tempo. L’apertura verso gli stimoli esterni è vista infatti come un’opportunità, sempreché essi vengano metabolizzati a proprio vantaggio.

  mercato globalizzato, a raggiungere un notevole tasso di crescita annuale del PIL, attraendo investimenti esteri e cogliendo i vantaggi del progresso tecnologico, ma spesso «hanno dovuto sacrificare buona parte della loro autonomia politica ed economica sull’altare del mercato globale» 73 . Considerando i paesi che, non avendo tratto beneficio dall’indebitatamento a livello internazionale negli anni ’80 rinegoziavano il debito con le grandi istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), si è notato come essi erano costretti a ridurre le spese per il welfare state, adattando l’apparato di governo ai Piani di aggiustamento strutturale (PAS) 74 . Questi hanno spinto a privatizzare le grandi imprese statali, svalutare la moneta locale e liberalizzare i mercati. Se l’intento, almeno dichiarato, era quello di stimolare un processo di crescita economica, i PAS si sono rivelati spesso uno shock a livello macroeconomico, che, anziché rendere più solida l’economia nazionale, la ha rimessa alle fluttuazioni del mercato e alla spregiudicatezza di gruppi affaristici e politici collusi. Inoltre, anche i paesi di nuova crescita, come i cosiddetti

  75 Nic 76 , tra cui le ‘Tigri asiatiche’ , o come, più recentemente, la Cina, l’India ed altri rientrati nel gruppo dei G20, hanno puntato molto a far crescere gli indicatori economici, senza

  sempre curare di pari passo i fenomeni di marginalità sociale. Il risultato è, spesso, l’impoverimento definitivo di grandi masse, come quelle dei nuovi poveri inurbati in un quadro di crescita demografica che, seppur rallentata, continuerà probabilmente per tutto il secolo XXI e sarà guidata proprio dalle città dei paesi del Sud. 77

  Alcuni miglioramenti nella qualità della vita sono in corso, in ordine sparso, anche nel Sud, ma ancora «le scie dei processi di sviluppo […] sono poco chiare» 78 , e, ad alcuni

  traguardi raggiunti, si affiancano sempre contraddizioni ed emergenze tuttora irrisolte, come mostra la significativa tabella sottostante.

  73 Memoli M., Sviluppo e sottosviluppo: concetti e strumenti stabilmente in crisi in Boggio F., Dematteis G. (a cura di), Geografia dello sviluppo. Diversità e diseguaglianze nel rapporto Nord-Sud. Utet, Torino, 2002, p. 29.

  74 Un’analisi minuziosa di come i programmi delle organizzazioni mondiali del Washington

  Consensus siano riuscite ad aprire le economie dei paesi non occidentali, a diffondere l’economia di mercato,

  a tenere bassi i salari e, infine, a fare gli interessi dei grandi capitali delle imprese multinazionali si può ad es. trovare nel testo di Michel Chossudovsky, La globalizzazione della povertà. L’impatto delle riforme del fondo monetario internazionale e della Banca mondiale , Gruppo Abele, Torino, 1999

  75 New Industrialized Countries.

  76 Tra i NIC vi è il fenomeno dei piccoli paesi del sud-est asiatico, che, negli anni ’90 hanno

  raddoppiato o addirittura quadruplicato il loro Pil pro-capite, aprendo le economie a investimenti esteri e sviluppando alcuni settori industriali dedicati all’esportazione. Si tratta di Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Hong Kong.

  77 Cfr. il saggio di Memoli M., op. cit. pp. 28-29. Si veda anche Vanolo A., Gli spazi economici della globalizzazione. Geografie del commercio internazionale , Novara, Utet, 2007, p. 117 e segg.

  Sulla crescita della popolazione e della sua distribuzione geografica nel XXI sec., si veda ad es. Veron J., L’urbanizzazione del mondo, Il Mulino, Bologna, 2008

  78 Zupi M. (a cura di), Capire il mondo, almeno il Terzo. Processi di democratizzazione e sviluppo a

  confronto , CeSPI, Formin’, Movimondo, Roma, 2001, p.15.

Tab. 2. La natura ambigua dello sviluppo nel mondo

  Traguardi raggiunti

  Emergenze irrisolte

  POVERTÀ’

  Nei paesi asiatici il PNL è cresciuto del 7 annuo 1,3 miliardi di persone vivono nella povertà assoluta nel corso degli anni ‘80

  ASPETTATIVE DI VITA

  La speranza di vita alla nascita è aumentata in Le persone anziane nei PVS, sprovviste di sistemi molti PVS nel corso degli ultimi decenni

  previdenziali, sono più vulnerabili alla povertà SALUTE

  L’accesso ai servizi sanitari di base è aumentato in Diarrea, malaria e tubercolosi uccidono 17 milioni di molti PVS nel corso degli ultimi anni

  persone all’anno nei PVS, dove vive l’80 delle persone contagiate dall’HIV

  ISTRUZIONE

  L’iscrizione alle scuole elementari è molto Il 35 degli adulti nei PVS è analfabeta e il 30 dei aumentata (l’80 dei bambini), ancor di più alle bambini iscritti alle scuole elementari abbandona gli scuole secondarie (il 40)

  studi ALIMENTAZIONE

  Dagli anni ’60 agli anni ’90 è raddoppiato il numero 800 milioni di persone sono malnutrite di PVS che soddisfano il fabbisogno giornaliero pro-capite

  BAMBINI

  In 30 anni si è dimezzata la mortalità infantile

  34.000 bambini muoiono ogni giorno di malnutrizione e malattie

  DONNE

  In 20 anni la percentuale di ragazze iscritte alle

  I 23 degli analfabeti sono donne

  scuole secondarie è aumentato dal 17 al 36

  SICUREZZA E PACE

  Nel 1990, 380.000 rifugiati sono tornati nel proprio

  60 paesi hanno conflitti interni e ci sono 35 milioni

  paese di origine

  di rifugiati o sfollati

  Fonte: Elaborazioni di dati UNDP del 1995 in Zupi M. (a cura di), Capire il mondo, almeno il Terzo. Processi di democratizzazione e sviluppo a confronto , CeSPI, Formin’, Movimondo, Roma, 2001, p. 15.

  Inoltre, gli impegni a fornire aiuti allo sviluppo in una misura percentuale del Pil stabilita in consessi internazionali dai paesi membri dell’Ocse, sono tuttora disattesi dai molti dei paesi donatori, cosicché neanche le quote previste, che probabilmente già non sarebbero sufficienti a risolvere la situazione in maniera strutturale, sono effettivamente spese. Nonostante i recenti impegni presi anche in sede Onu, come quelli dei Millennium Development Goals (Mdg) del 2000, il divario sussiste. Anche i Mdg procedono lentamente, e, nonostante qualche piccolo segnale di miglioramento, sarà difficile Inoltre, gli impegni a fornire aiuti allo sviluppo in una misura percentuale del Pil stabilita in consessi internazionali dai paesi membri dell’Ocse, sono tuttora disattesi dai molti dei paesi donatori, cosicché neanche le quote previste, che probabilmente già non sarebbero sufficienti a risolvere la situazione in maniera strutturale, sono effettivamente spese. Nonostante i recenti impegni presi anche in sede Onu, come quelli dei Millennium Development Goals (Mdg) del 2000, il divario sussiste. Anche i Mdg procedono lentamente, e, nonostante qualche piccolo segnale di miglioramento, sarà difficile

  asseriva Rist, i divari sono impossibili da colmare nell’attuale situazione geopolitica mondiale. Cosicchè potremmo concludere asserendo che l’attuale modello economico dominante pare aumentare il benessere in alcune aree del mondo (con alcune limitazioni e conseguenze indesiderate), senza avere la possibilità (o la volontà) di risolvere, però – come invece previsto dai suoi fautori – gli squilibri socio-economici acuitisi dall’epoca coloniale in poi.

2.2 I problemi ambientali

  In un lavoro che si occupa di rifiuti e conflitti nati per la redistribuzione delle risorse 80 , sembra opportuno trattare della nascita dei problemi dell’ambiente e della

  percezione degli stessi, cercando le origini del problema del degrado dell’ambiente e dello spreco di risorse naturali che sono fonti di alcune delle più gravi preoccupazioni della nostra epoca. Nel contempo, appare utile anche soffermarsi su alcune significative proposte di risoluzione del degrado ambientale crescente, che, come vedremo, sono differenti in base all’approccio utilizzato nell’analizzare la realtà.

  I problemi ambientali, oltre a rappresentare un rischio per la società e per alcune

  aree del pianeta, o addirittura per la stessa vita sul pianeta, sono fonti di conflitti, che aumentano sempre più mano a mano che aumenta la pressione delle comunità sull’ambiente e si riduce lo spazio incontaminato da poter sfruttare a fini economici o di mera sopravvivenza. I problemi ambientali, pertanto, sono legati con filo diretto a quelli economici e sociali. Non a caso, numerosi autori ritengono che una delle cause principali delle odierne preoccupazioni per il futuro del pianeta stia proprio nell’applicazione di un modello di sviluppo economico che mette il profitto al primo posto tra gli obiettivi generali della società: il sistema economico dominante è uno dei fattori sociali più volte tirato in ballo per spiegare le cause delle attuali minacce alla vita sulla Terra.

  Piero Bevilacqua, nel libro La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente, giunge a una conclusione simile. Lo storico dell’ambiente mette in evidenza come vi siano state, nel tempo, differenti spiegazioni delle origini degli odierni problemi ambientali e di distribuzione delle risorse. Diversi autori hanno interpretato il problema adducendo differenti cause al degrado del rapporto uomo-natura, quali:

  79 Cfr. ONU, The Millennium Development Goals Report 2009. www.un.org. 80 Sul concetto di risorsa, si veda il successivo § 3.3.

  - cause culturali, come la religione. Già nella bibbia si giustificherebbe infatti un atteggiamento di dominazione dell’uomo sulla natura. Ma è poi la scienza moderna, da Cartesio in poi, che ha sviluppato una visione meccanicistica della natura, con Galileo e Newton, ridotta a un insieme di leggi e rapporti calcolabili; ciò avrebbe causato, in seguito, un mutamento profondo del rapporto uomo-ambiente, sempre a favore di una dominazione del primo;

  - cause demografiche: la crescita demografica senza precedenti, verificatasi negli ultimi tre secoli, è vista da alcuni come la vera causa dei problemi dell’ambiente a causa dell’aumento della pressione sulle risorse verificatosi;

  - cause economiche: secondo alcuni studiosi, soprattutto economisti, il fatto che il mondo fisico non sia integralmente inserito nella legge della domanda e dell’offerta porterebbe a non considerane il valore. La soluzione, per loro, è quella di trasformare la natura in un bene economico, per valutarla in maniera più razionale. Secondo altri, spesso critici di quest’ultima posizione, è invece il sistema capitalistico ad indurre allo sfruttamento di massa delle risorse: dunque la causa fondamentale sarebbe l’assunzione di un sistema di produzione, il capitalismo, che è divenuto dominante. Esso crea uno scompenso sistemico tra la legge del profitto e l’interesse comune.

  Concludendo, Bevilacqua afferma che molte di queste spiegazioni possono avere validità, in tutto o in parte, poiché la complessità della realtà può essere capita solo se la si guarda da molteplici punti di vista. Però, l’affermarsi del nuovo modo di produrre e consumare capitalistico rappresenta sicuramente la principale delle rotture storiche col passato, e anche la principale causa degli scompensi socio-ambientali che viviamo nella nostra epoca: anche l’industrializzazione di stato (o il cosiddetto socialismo reale dell’Urss), pur provando in linea teorica a porre un freno allo sfruttamento del lavoro umano, ha sfruttato senza limiti il sistema naturale più o meno come avvenuto nei sistemi

  ad economia di mercato (e infatti gli stati dell’ex Unione Sovietica ne hanno patito disastri ecologici inauditi). D'altronde, come afferma l’autore, «tanto l’economia di mercato che quella socialista sono figlie della stessa epoca capitalistica» 81 , ma i paesi del ex 2° mondo hanno attuato una sorta di “capitalismo di stato”. Ma, cosa ancor più foriera di effetti sul territorio del pianeta, il sistema economico dell’ “epoca capitalistica” «non è solo un modo di produzione: esso ha creato culture, mentalità, comportamenti collettivi che hanno marcato come mai era accaduto in passato l’impronta degli uomini sulla Terra, […ed è] negli ultimi cinquant’anni [che] è emersa […] la capacità di distruzione globale che il capitalismo porta con sé» 82 .

  81 Bevilacqua P., op. cit., p. 26. 82 Ibidem, p. 27.

  Se dunque desideriamo collocarne nel tempo la “nascita”, o almeno il periodo di maggior rilevanza, della questione ambientale, utile fare una breve premessa storico- metodologica: assumeremo che, nonostante «l’alterazione del suolo per scopi produttivi [sia] antica quanto la stessa storia degli uomini» 83 , e ha causato in passato grandi mutamenti in alcune aree dell’ecumene, è però nel XX sec. che dobbiamo collocare le maggiori trasformazioni del pianeta causate dal genere umano; è, poi, proprio nella seconda metà del secolo che nasce una percezione universale della gravità della questione ambientale, al punto che svariati autori hanno reputato possibile il rischio che la stessa vita sulla terra sarebbe minacciata dalle modifiche apportate agli equilibri ecologici del nostro pianeta.

  Nei primi anni ’70, grazie anche al contesto storico di crisi economica e del petrolifera, fece scalpore la pubblicazione nel 1972 del libro The limits to growth, il rapporto del Massachusetts Institute of Technology (Mit), che paventava, tra i possibili scenari futuri, l’esaurimento delle risorse naturali – in un quadro di aumento della popolazione, dell’inquinamento e del consumo delle risorse naturali. 84 La questione dell’esaurimento delle risorse naturali sarà poi smentita e il problema sarà ridimensionato da evidenze successive (come le nuove tecniche di ricerca di giacimenti petroliferi o la dematerializzazione ), ma, questo studio pilota mise in evidenza anche la questione dell’inquinamento dell’ambiente, che è, al contrario, sempre più attuale e grave.

  Aurelio Peccei del Club di Roma, gruppo internazionale di personalità del mondo scientifico che promosse tale sforzo di ricerca ed elaborazione dati, nella prefazione all’ottava edizione dei Limits (1982) scrisse che il testo fu giudicato «dissacrante, se non proprio eretico e meritevole del rogo, dai fautori della crescita economica a ogni costo, mentre altri plaudivano il coraggio e la chiarezza con cui metteva in luce verità semplici ma essenziali per un più ordinato sviluppo dell’umanità». Peccei continua accusando l’establishment mondiale, che avrebbe «fatto di tutto per indirizzare l’opinione pubblica verso obiettivi di comodo; si è ingegnato per abbacinarla con i miti del benessere materiale sapientemente alimentati al di la si ogni limite reale; e l’ha incoraggiata a riporre le maggiori speranza nella tecnologia […riuscendo] a far si che lo sviluppo economico e quello tecnologico siano diventati i due grandi poli di riferimento della nostra civiltà». Peccei continua asserendo che, sebbene sia da questi “poli” che sgorga un flusso infinito di

  83 Ibidem.,p. 58. 84 Cfr. Tinacci Mossello M., op. cit. , p. 43 e segg., e Meadows D. H., Meadows D.L., Randers J., Berens

  W.W.III, I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group Massachussetts Institute of Tecnology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità , Milano, Mondadori, 1983 (ottava edizione - ed. originale The limits to growth, New York, Universe Books, 1972). Si noti che la traduzione italiana “i limiti dello sviluppo” non rispecchia, come messo in evidenzada più autori, il concetto di “crescita”, che attiene in particolare alla crescita economica.

  beni e servizi per miliardi di persone, ci sono però costi occulti dei traguardi straordinari di produzione raggiunti dall’umanità. Il rapporto «suscitò aspre critiche di metodo relative al carattere deterministico anziché probabilistico delle previsioni, all’assenza dal modello delle variabili politiche, alla scarsa attendibilità dei dati – ma verosimilmente fu rigettato dalla ricerca ufficiale sopratutto perché conteneva la famosa e famigerata proposta di “crescita zero”, per gli economisti quasi blasfema» 85 . Ciononostante, riuscì a stimolare un ampio dibattito sull’esauribilità delle risorse, sospinto poi, l’anno successivo alla pubblicazione, dalla grande crisi petrolifera del ’73. Ulteriore meriti dei Meadows e loro colleghi furono: il mettere in guardia le comunità scientifiche e l’opinione pubblica dalle possibilità di dover affrontare grandi catastrofi ambientali nel XXI sec., possibilità che, da allora, ha avuto molto credito nelle analisi scientifiche sul futuro del pianeta, accompagnata dalla richiesta di attuare le necessarie politiche per l’ambiente per scongiurarla; l’utilizzo dell’approccio sistemico nell’analisi degli scenari futuri; l’idea che il tipo di analisi effettuata, sebbene fosse un modello assai semplificato, avrebbe aperto la possibilità e la necessità di incrementare notevolmente gli studi al riguardo 86 , come, in effetti, è poi accaduto.

  Oggi, l’impossibilità di perseguire la crescita economica illimitata è divenuta un’idea condivisa, almeno in linea di principio, da molti governi del mondo e dalle istituzioni internazionali. Ma il rapporto dei Meadows non era l’unico studio sui limiti della crescita che circolava in quell’epoca. 87 Svariati studi e intuizioni, inoltre, lo precorsero nel considerare gli effetti sull’ambiente dell’industrializzazione moderna, sin dall’ottocento, come dimostra ad esempio l’interesse di ricerca di Elisée Reclus verso gli “insiemi naturali” e il loro rapporto con gli ambienti umanizzati, o le denuncie politico statunitense George Mash sul rischio di distruzione della “natura selvaggia”, e i suoi sforzi per l’istituzione di parchi naturali che la salvaguardassero (tipico esempio di quell’ambientalismo che Martinez Alier chiama “il culto della wilderness” 88 , di cui ci occuperemo meglio nei capitoli successivi). Ma, per ragioni di spazio e opportunità, ci concentreremo sul periodo cruciale della seconda metà del novecento 89 , quando la questione del limite assurge a fondamentale oggetto di analisi per il futuro del pianeta.

  85 Tinacci Mossello M., op. cit. , p. 45. 86 Cfr. Meadows D. H., Meadows D.L., Randers J., Berens W.W.III, I limiti dello sviluppo. Rapporto del

  System Dynamics Group Massachussetts Institute of Tecnology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmmi dell’umanità , Milano, Mondadori, 1983 (ottava edizione - ed. originale The limits to growth, New York, Universe Books, 1972). Si veda l’Introduzione, dove vi è una premessa metodologica.

  87 Martinez Alier segnala, ad es., che il 1971 fu l'anno della pubblicazione di libri importanti sui temi dell'economia e dell'ecologia (tra gli autori cita Odum, Commoner, Georgescu-Roegen e Goldsmith). Per di

  più critica il Club di Roma sia per la campagna pubblicitaria fatta al loro famoso rapporto, sia perchè, dice, si è macchiato in seguito di opportunismo, come quando, in Spagna, ha difeso la costruzione di una centrale nucleare. Lo bolla come un fenomeno sociale propagandistico (Cfr.Martinez Alier J., De la Economìa ecologica al ecologismo popular, Barcelona Icaria, 1992, p. 45-46)

  88 Cfr. Martinez-Alier J., L’ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Milano, Jaca Book, 2009.

  In questo periodo la possibilità di sfruttamento illimitato delle risorse e di modificazione degli spazi naturali ha trovato limiti proprio nei problemi ambientali. Questo ci induce a considerare che la corrente di pensiero del determinismo ambientale, secondo cui i modi di vita delle società umane sono condizionate o determinate dall’ambiente, può, mutatis mutandis riassumere una certa validità: in passato molti pensatori (da Ippocrate a Montesquieu), e una folta schiera tra primi tra i geografi politici che operavano a cavallo tra ottocento e novecento, come Ratzel e alcuni suoi allievi, fino a quelli coinvolti nel governo della Germania nazista come Haushofer, vedevano l’ambiente come un limite o un condizionamento (più o meno determinante) ai progressi delle società. Ma questo concetto fu superato dal possibilismo della scuola francese della prima metà del novecento, che fa capo a Vidal de la Blache: i modi di vita erano sì limitati dall’ambiente circostante, ma alle comunità umane si aprivano varie possibilità di interpretarlo e quindi di organizzare la propria riproduzione della società. Con l’avvento dell’era tecnologica è parso possibile affrancarsi totalmente dalla natura “matrigna”, che non avrebbe avuto più segreti e non avrebbe più rappresentato un limite per il progresso. Oggi però, con la scoperta, la diffusione e l’incremento dei rischi legati al degrado degli ecosistemi, forse si potrebbe riconsiderare il determinismo come una sorta di reazione di Gaia (la Terra come essere vivente, e non semplicemente come abitata dalla vita – nell’interpretazione di Lovelock 90 ) agli eccessi del progresso e della modernizzazione: una reazione che pone limiti nuovi al modello di sviluppo. Ma come si è giunti a questo peculiare modello?

  La concezione occidentale dello sviluppo, rintracciabile sin dalle tendenze intellettuali europee del XVII secolo, introduce di fatto assolute novità nel modo di concepire la società, e naturalmente questo ha modificato il rapporto uomo-ambiente. Nelle scienze sociali, alla fine del settecento, si trasferì la metafora della crescita per spiegare i progressi delle società. Da un’idea di crescita delle civiltà come processo circolare, si applicarono, con un’altra metafora, le teorie evoluzioniste darwiniane alla società: in base agli effettivi progressi della scienza e della tecnologia si radicò in occidente l’idea che la società sarebbe potuta progredire verso obiettivi desiderati. L’obiettivo principale divenne quindi quello di mettere in atto processi di modernizzazione, intendendo, come nel modello del già citato Rostow degli stadi di sviluppo, l’abbandono di modelli di riproduzione della società votati alla sopravvivenza e l’innesco di processi di

  89 Per una sintetica disamina delle proposte ambientaliste dall’ottocento ad oggi si veda ad es.

  Tinacci Mossello, op. cit., p. 39 e segg., oppure il testo di Martinez Alier, Economia ecologica. Energia,ambiente e società , Milano, Garzanti, 1991, che mette in luce come anche l’opera di Georgescu-Roegen in merito alla questione dei limiti fisici dell’analisi economica classica abbia avuto numerosi e perlopiù dimenticati predecessori.

  90 Cfr. Vallega, op. cit., p. 15.

  sviluppo dell’industria. Lo scopo era quello di raggiungere il benessere, inteso come possibilità di consumare e accumulare merci. Il mezzo attraverso cui raggiungerlo era la crescita economica. Questo modello di sviluppo fu ben presto, sulla scia dei successi dei paesi occidentali, percepito non solo come l’unico possibile, ma anche come il modello da esportare in altre aree geografiche. Come accennato nel paragrafo precedente, l’ottimismo che accompagnava tale modello incominciò a scricchiolare negli anni 60’-70’ del novecento, quando gli insuccessi delle politiche di sviluppo in campo sociale e l’aggravamento delle diseguaglianze sociali e territoriali causarono la nascita di dubbi e critiche anche radicali al “mito del progresso”. 91

  Dal punto di vista delle critiche ecologiste, già negli anni sessanta prendevano forma i primi importanti «germi di una coscienza ambientalista presso la vasta opinione pubblica» 92 , grazie ad esempio a una delle pietre miliari del movimento ecologista, qual è considerato il libro Silent Spring della biologa marina Rachel Carson del 1962. Il libro di Carson rappresentava anche uno sforzo scientifico di ricerca sulle conseguenze dei danni provocati dal Ddt e in generale dell’uso della chimica in agricoltura: se la chimica prometteva un aumento costante della produttività alimentare, sosteneva l’autrice, e quindi della crescita, essa però poteva essere causa di danni ai terreni e alle acque, alla fauna e infine all’uomo, tramite la catena alimentare. L’immagine della primavera silenziosa evocata dall’autrice, senza più i canti degli uccelli, provocò durissime reazioni dalle industrie chimiche, che difendevano il proprio operato; ma il libro generò reazioni a più livelli sfociate in un duro conflitto ambientale interno agli Usa, in cui era coinvolta l’opinione pubblica e la comunità scientifica. Quest’ultima ne risultò spaccata in fazioni opposte. Dopo varie peripezie però il Ddt fu bandito negli Stati Uniti dall’Epa (U.S. Environmental Protection Agency) nel 1972 93 – bando che oggi è in vigore nei paesi più ricchi ma che ancora consente di utilizzare e addirittura di vendere questo prodotto nel sud del mondo 94 .

  La finitezza del sistema fisico terrestre è stata in seguito messa maggiormente in luce dal pensiero di Boulding che, nel 1966 95 , immaginando la terra come una navicella

  spaziale, anticipava il concetto di impronta ecologica: era necessario, sosteneva l’economista statunitense, «sostituire al più presto all’ideologia produttiva “à la cow boy”, adatta a larghi spazi e sostenuta da ampi consumi, criteri di governo delle risorse adatti

  91 Cfr. Segre A., Dansero E., op. cit., pp. 86-88. 92 Segre A., Dansero E., op. cit., nota a p. 97. 93 Cfr. Wikipedia alla voce Ddt (www.wikipedia.org). 94 Cfr. tesi di laurea in Geografia dello sviluppo di Stendardo M.,Sviluppo sostenibile. La questione dei

  rifiuti in Africa Subsahariana , Università Orientale, 2009 (tutorata dal sottoscritto).

  95 Cfr. Boulding K.E., The economics of the coming spaceship Earth, in Jarrett H (a cura di), Environmental quality in a growing economy ., Baltimora, John Hopkins University, 1966.

  per la “terra-navicella spaziale”» 96 . Boulding pensava che il fine dell’uomo non era il consumo in se, ma il poter vivere bene - ad esempio essere ben nutriti e non semplicemente

  mangiare . L’ottimo per Boulding era quindi il poter raggiungere un minimo di consumi che garantisse di mantenere un certo stato, per assicurare una varietà e una durabilità dei consumi anche alle future generazioni.

  Quasi contemporaneamente alla pietra miliare The Limits to Growth, apparve, nel 1971, il libro di Georgescu-Roegen The Entropy Law, dove l’economista di origine rumena, conosciuto per le sue tesi “eretiche”, iniziava la sua dura critica verso l’economia neoclassica. Georgescu-Roegen denunciò un vizio meccanicistico dell’economia dominante sin dal 1970, anno in cui rese pubbliche, in un convegno all’Università dell’Alabama 97 , le sue idee critiche sull’economia. Gli economisti, sosteneva, non riuscivano a vedere l’interazione esistente tra il processo economico e l’ambiente. Il fondamentale errore della loro analisi da lui riscontrato era quello di considerare il sistema economico come basato esclusivamente su leggi finanziarie considerate sempre valide, come se il mercato fosse un meccanismo banale. La domanda e l’offerta, in un sistema di concorrenza perfetta e di equilibrio, regolerebbero il mercato dei fattori di produzione, tra cui anche quello delle materie prime e dell’energia. Ma l’attività di produzione, nella visuale dell’economia neoclassica, è vista come un ciclo chiuso che lascia al mercato il compito di acquisire gli input materiali, la cui disponibilità è data per scontata. Questo ciclo è considerato continuamente reversibile: i fattori di produzione rientrano nel circuito economico di volta in volta, semplicemente attraverso la loro remunerazione, data dai consumi e dagli investimenti. In tal modo, asseriva l’autore, ci si dimentica di considerare che i flussi di materia ed energia hanno una base materiale imprescindibile, base che l’analisi economica semplicemente non considera. 98

  A lungo andare, sosteneva

  l’economista rumeno, la produzione agricola e industriale non sarebbe durata a lungo, proprio per motivi fisici. Infatti, «la produzione dipende dalla trasformazione della materia e dall’uso dell’energia, e l’energia, da qualsiasi parte si prenda, nel corso di ogni trasformazione peggiora sempre di qualità ed è sempre meno disponibile per produrre lavoro utile». 99 Georgescu-Roegen, basa il fondamento analitico di queste preoccupazioni sulla termodinamica. Questa branca della fisica che studia la meccanica del calore, fu elaborata alla metà del XIX sec. da Clausius, «a partire dagli studi sulle macchine termiche con cui Carnot (1824) aveva osservato l’impossibilità del passaggio spontaneo di calore da

  96 Tinacci Mossello M., op. cit., p. 43. 97 Il testo di quella conferenza del 3 dicembre 1970 è stato pubblicato nel 1972 e si può trovare nel

  libro Georgescu-Roegen N., Energia e miti economici, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, (con un’introduzione di Giorgio Nebbia).

  98 Cfr. Tinacci Mossello, op. cit., p.47 99 Si veda l’introduzione di Giorgio Nebbia a p. 9 del libro Georgescu-Roegen N., 1998, op. cit.

  un corpo freddo a un corpo caldo» 100 . Clausius elaborò quindi la seconda legge della termodinamica, secondo cui la degradazione dell’energia in calore non più utilizzabile è

  irreversibile. Mentre la prima legge afferma riguarda il principio della conservazione dell’energia (che non si genera né si distrugge, ma può solo trasformarsi), la seconda legge ne prevede la trasformazione e la degradazione, fornendo un’unità di misura per la differenza fra le risorse e gli scarti: l’entropia, ossia la misura dell’energia non utilizzabile all’interno di un sistema. In tal modo, il meccanicismo newtoniano ancorato alle certezze del tempo reversibile venne messo in crisi almeno nel campo della fisica. 101 L’energia, accumulata in alcune risorse naturali che l’uomo riesce a sfruttare (combustibili fossili, fonti rinnovabili ecc.) viene utilizzata, si degrada, cioè passa ad uno stadio in cui non è immagazzinata in una fonte precisa (come un pezzo di carbone), ma è dispersa nell’ambiente (bruciando il carbone l’energia si disperde sottoforma di fumo, cenere e calore) e perciò non è più utilizzabile: l’entropia del sistema quindi aumenta. L’esempio del pezzo di carbone rende chiaro che l’energia in esso concentrata, una volta liberata bruciandolo, non può essere più utilizzata, se non attendendo i tempi della natura (lunghi rispetto a quelli della produzione industriale) che permettono all’anidride carbonica di essere nuovamente immagazzinata dalla flora e, in alcune condizioni, di ridiventare carbone 102 . Ma i tempi storici sono divenuti molto più veloci di quelli biologici, come afferma Tiezzi. In Occidente si è verificato un grande mutamento epistemologico sui significati del tempo e sullo sviluppo della società. Il tempo caratterizzante il pensiero nella storia antica e medievale era considerato ciclico poiché legato ai cicli della natura. Solo dopo le rivoluzioni scientifica e industriale è maturata l'idea del possibilità di un tempo lineare, basato sul progresso.

  Il dominio quasi incontrastato delle società umane sulla natura li ha resi non congrui perciò con i tempi di riproduzione delle risorse naturali 103 . E ciò può essere valido

  sia per le risorse cosiddette non rinnovabili, come, appunto, i combustibili fossili, che hanno tempi di rigenerazione al di fuori della possibilità di controllo degli uomini, sia anche per quelle rinnovabili: basti pensare ad una falda acquifera, che, quando troppo sfruttata a causa dell’accelerazione dei consumi, non riesce a rigenerarsi e rischia di esaurirsi.

  L’energia, che esiste in natura in due stati qualitativi (1. utilizzabile o libera; 2. non utilizzabile o legata), si trasforma nel secondo stato quando viene utilizzata per essere trasformata in calore o in lavoro meccanico. Georgescu Roegen, per trasposizione, utilizzava il modello della seconda legge non solo per l’energia, ma anche per la materia,

  100 Tinacci Mossello M., op. cit. p. 39. 101 Ibidem, p. 40. 102 Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 103 E’ questa la tesi di fondo del libro di Tiezzi E., Tempi storici e tempi biologici, Milano, Garzanti, 1987.

  accumulatasi in giacimenti minerari nella lunga evoluzione geologica terrestre: egli individuava un ulteriore effetto entropico nello sfruttamento delle materie prime minerali, quello che chiamava, come provocazione, 4° legge della termodinamica 104 .

  La deconcentrazione spaziale della materia, dovuta al consumo, provoca inesorabilmente il consumo dello stock di bassa entropia, «malgrado i miglioramenti delle tecniche di estrazione e di lavorazione e delle azioni di riciclo» 105 : vi è sempre una dispersione di materia durante il consumo, e anche il riciclaggio non riesce spesso a raggiungere la totalità del materiale, a causa di difficoltà tecniche e della complessità crescente degli oggetti fabbricati. L’autore porta due esempi illuminanti: quello di un collier di perle che si sfila in un vasto spazio aperto, e quello della gomma degli pneumatici, che si consuma lentamente in spazi amplissimi. In entrambi i casi sarebbe davvero difficile recuperare tutto il materiale originario.

  Lo sfruttamento della “bassa entropia” terrestre attiene ai rapporti intessuti tra il genere umano e lo spazio fisico sin dalla comparsa dell’homo sapiens, da quando cioè il genere umano fruisce di una parte della gamma infinitamente varia di materie che trova nell’ambiente. Solo parte di essa si trasforma in risorsa, in base all’utilità assegnatagli dalle diverse società. Nel novecento l’ingegno e la scienza applicata alla tecnologia nei paesi industrializzati hanno permesso di sfruttare una varietà sempre maggiore di materia ed energia prodotta utilizzando molti elementi naturali, trasformati, appunto, in risorse. E’ solo in questo secolo, infatti, che tutti i 92 elementi della tavola periodica presenti in natura hanno trovato un utilizzo industriale 106 . I timori di Georgescu Roegen sono dunque fondati specialmente, ancora una volta, sul modo di produzione e consumo diffuso, dal dopoguerra, in tutto il mondo, che la teoria economica dell’equilibrio ha contribuito a rafforzare. Essa non ha mai assunto la seconda legge della termodinamica nei suoi studi e nel rapporto tra società e ambiente, né ha esaminato i mutamenti nel tempo di questo rapporto, concentrandosi sui modelli di equilibrio economico generale basati sul prezzo e sulla scelta individuale del consumatore considerato “razionale”. Gli spunti

  104 Cfr. Georgescu-Roegen N., Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino, 1998. Interessante è anche il racconto che Giorgio Nebbia fa della polemica tra Georgescu-Roegen e i suoi critici a proposito della

  sua tesi sul consumo dei materiali - e non solo dell’energia - verso cui l’umanità tende: «Calma, dicono i critici: sarà invece la tecnica che ci salverà, per esempio permettendoci di riciclare le scorie, proprio come fa la natura, per ricavarne altre materie prime per il futuro. Folli!, replica Georgescu-Roegen. Perchè anche la materia si degrada: “Matter matters, too”, un principio che egli ripete innumerevoli volte e a cui addirittura attribuisce, scherzosamente, il valore di “principio”: il quarto principio della termodinamica, secondo cui, proprio come avviene per l'energia, la materia disponibile non scompare, ovviamente, ma “si degrada continuamente e irreversibilmente in materia non più utilizzabile“ a fini umani, merceologici, economici». (tratto da Nebbia G., “Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994)”, in Altro Novecento. Ambiente - tecnica - società, n. 4, novembre 2000, p.2).

  105 Tinacci Mossello M., op. cit., p. 49. 106 Cfr. Gardner G., Sampat P., “Per un’economia dei materiali sostenibili”, in State of the world ’99,

  Milano, Edizioni Ambiente, 1999, p. 48.

  evoluzionistici presenti nell’opera degli autori classici, infatti, non furono successivamente sviluppati 107 .

  La quantità sempre maggiore di risorse utilizzate, e i rischi per l’ambiente e per l’uomo paventati da una parte della scienza e dai primi movimenti ambientalisti, aprirono dunque, negli anni settanta, un ampio dibattito tra “ottimisti” e “pessimisti”. In questo clima di incertezza c’era chi, come Robert Solow, premio Nobel per l’economia, pensava che il consumo di risorse non fosse un problema, poiché scienza e tecnica avrebbero sopperito alla loro mancanza. Solow, nel 1974, scrisse: «se è molto facile sostituire le risorse [naturali] con altri fattori [cioè i prodotti dell’industria], in linea di principio non esiste problema. Il mondo può, in effetti, andare avanti senza risorse naturali» 108 . Questa affermazione è diventata famosa tra gli studiosi di economia e di ambiente. Rappresenta il pensiero dell’economia standard, per usare le parole di Georgescu-Roegen, o la posizione della frontier economic, per usare un altro termine coniato da Kenneth Boulding nel 1966 109 . La frontier economic è quel sistema economico che tende al «superamento della frontiera economica e tecnologica che delimita le capacità esistenti di appropriarsi e trasformare le risorse presenti nell’ambiente» 110 . Il mito del progresso, in effetti, si basa su una crescita economica illimitata che considera l’ambiente come «fonte inesauribile di risorse fisiche e come deposito illimitato per i sottoprodotti dell’attività di produzione e consumo» 111 . L’economia neoclassica del novecento, grazie agli spettacolari progressi nella scienza applicati alla tecnologia e allo sviluppo industriale, ai miglioramenti della qualità della vita e al conseguente e altrettanto spettacolare incremento demografico (da 1,6 miliardi a circa 6 miliardi dall’inizio alla fine del secolo di abitanti del pianeta), ha creduto possibile superare ogni limite naturale e andare sempre avanti verso nuove frontiere.

  Il contrasto tra il modello ideale di Solow e quello di Georgescu Roegen, come quello tra la maggioranza degli economisti e gli ambientalisti fautori della sostenibilità

  forte 112 , si è riproposto fino ai nostri giorni anche all’interno del nuovo paradigma dello sviluppo sostenibile. Esso è divenuto oggi «il nuovo imperativo nella riflessione sullo sviluppo» 113 dopo le grandi conferenze internazionali in ambito Onu sull’ambiente: dopo la prima, nel 1972, in cui il tema fondamentale fu l’inquinamento (Conferenza delle Nazioni Unite sull’”Ambiente umano” di Stoccolma, dove nacque l’Unep, United Nations

  107 Tinacci Mossello M., op. cit. p. 40.

  Solow R.M., The economics of resources or the resources of economics, in “American Economic

  Rewiew”, vol. 64, n.2, 1971.

  109 Boulding K.E., The economics of the coming spaceship Earth, in Jarret H. (a cura di), Environmental quality in a growing economy, Baltimora, John Hopkins University Press, 1966 (citato in Segre A., Dansero E.,

  op.cit., 1996).

  110 Cfr. Segre A., Dansero E., op.cit., 1996, p.94 111 Ibidem. 112 Si veda infra, più avanti. 113 Segre A., Dansero E., op. cit., p. 105

  Environment Program ), le successive presero maggiormente in considerazione il legame tra ambiente e sviluppo (come nella conferenza di Coycoc, 1974, in cui il Terzo Mondo affrontò il tema della maldistribuzione delle risorse e in cui nacque il concetto dei basic needs, bisogni fondamentali da garantire a tutta l’umanità). Alla definizione di sviluppo sostenibile si approdò in seguito con il rapporto Our Common Future della World Commission on Environment and Development (commissione Bruntland), presentato il 1987, e consacrato nel Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, dove fu approvato il programma d’azione dei governi per il XXI secolo (Agenda 21), poderosa raccolta di intenzioni – purtroppo non vincolanti 114 - su numerosissimi temi da affrontare e sulle forze da coinvolgere per riuscire a “soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere l’analoga possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri”.

  Lo sviluppo sostenibile è debitore di un approccio olistico dell’ambiente, l’approccio sistemico, che considera il pianeta come un insieme di ecosistemi concatenati, che formano l’unico ecosistema Terra. Gaia, direbbe Lovelock 115 , è come un organismo vivente, in cui tutti gli aspetti sono collegati tanto strettamente da formare un’unità auto regolatrice. Sebbene non è dimostrato fino in fondo che la Terra possegga proprietà auto poietiche, comunque è sicuro che gli ecosistemi locali abbiano capacità auto regolatrici. Essi si comportano come organismi dotati di elevata complessità. Citando Vallega 116 , gli ecosistemi potrebbero essere considerati macchine non banali. Spingendoci oltre, potremmo dire che gli ecosistemi non sono banali, e non si comportano come macchine: se ciò è vero, diviene immediatamente chiaro come i primi approcci alla gestione dell’ambiente siano stati considerati superati, poiché non riuscivano a cogliere il cuore del problema da affrontare, basati come erano su interventi settoriali e palliativi. Gli interventi programmati erano volti a riparare i danni creati, nelle economie industrializzate, dagli effetti negativi della crescita economica, o a prevenirli. Questo approccio, detto della riparazioneprotezione 117 , nasce negli anni sessanta e si concentra sui fenomeni di inquinamento puntuali di alcune aree, i cui danni cominciavano ad apparire già irreversibili. All’inizio, dunque, la preoccupazione più grande nei confronti dell’ambiente proveniva dai danni causati dall’inquinamento. Tale fenomeno, legato spesso allo sviluppo della grande industria, è di solito studiato in base ai tre grandi comparti della natura che ne subiscono le conseguenze: l’atmosfera, l’idrosfera e la litosfera» 118 , che corrispondono, dunque, all’inquinamento dell’aria, delle acque e dei suoli. Ma, ovviamente, questa distinzione è «più formale che sostanziale, non esistendo confini che

  114 Come lamenta Dansero, ibidem. 115 Nel testo Lovelock J., Gaia. A new look at life on Earth, Oxford, Oxford University Press, 1979. 116 Cfr. Vallega, op. cit., p. 15. 117 Cfr. Segre A., Dansero E., op. cit., p. 97. 118 Segre A., Dansero E., op. cit., p. 69.

  delimitino gli effetti dell’inquinamento a un determinato comparto. L’inquinamento può trarre origine da un elemento e poi diffondersi, attraverso una serie complessa di interazioni, in tutto l’ambiente» 119 : tant’è vero che, oggi, i fenomeni di inquinamento ritenuti più pericolosi sono quelli che hanno un impatto a scala globale, come il cambiamento climatico. Provocato soprattutto da scarti delle attività industriali immessi nell’atmosfera, questo ha in realtà un impatto su tutti i componenti dell’ambiente.

  Con l’aumento delle preoccupazioni e la messa a punto di nuovi studi, l’ambiente rientrò nuovamente all’interno delle discipline economiche, ma come esternalità, nella nuova branca dell’economia, l’economia dell’ambiente, che ha il compito di occuparsi degli effetti dello sviluppo industriale sull’ambiente. Questa disciplina non metteva in discussione «né il ritmo dei processi di industrializzazione e di urbanizzazione, né gli stili di vita e i comportamenti sociali» 120 . I principali interventi discendenti da questo approccio sono le normative sui limiti di emissione e quelli “a valle” del processo industriale, come il trattamento degli scarichi (filtraggio dei gas, depurazione delle acque) o l’allontanamento

  e la dispersione degli inquinanti, insieme alla protezione di aree circoscritte o di specie in via di estinzione. Questa politica è anche detta del command and control, poiché impone regole agli inquinatori, senza però responsabilizzarli. Anche il rapporto Lenotief, redatto per conto dell’Onu nel 1977, proponeva come soluzioni quella di razionalizzare la produzione per ridurre la quantità di sostanze inquinanti, senza ridiscutere i comportamenti a rischio dell’industria. Si cercava di mitigarne gli impatti, stabilendo degli obiettivi raggiungibili, anche in base ai costi di intervento, poiché l’ambiente era visto come un «una sorta di meccanismo naturale da non sporcare troppo» 121.

  Un approccio di poco successivo si diffonde negli anni settanta, ed è basato sui timori per il depauperamento delle risorse ambientali. Punta ad una gestione razionale delle risorse, cui viene dato valore economico come beni scarsi, ed anche alla gestione del rischio ambientale, che, dopo alcuni incidenti industriali con conseguenze drammatiche (come quelli di Seveso o di Bhopal), cominciò ad essere un tema rilevante anche per l’opinione pubblica. La tematica della gestione delle risorse è ovviamente successiva alla riflessione fatta in The limits of the growth.

  Vallega opera un’ulteriore classificazione delle strategie ambientali, suddivise in quelle “a bassa complessità”, che si occupano solo della gestione degli elementi abiotici, “a media complessità”, in cui sono comprese le comunità biotiche e strategie per la loro salvaguardia, fino alle strategie di gestione integrale degli ecosistemi e dei cicli

  119 Ibidem. 120 Ibidem, p. 98. 121 Vallega, op. cit., p. 49.

  biogeochimici, che però sono solo immaginate dall’autore come politiche verso cui tendere. 122

  Tornando allo sviluppo sostenibile, i governi, per raggiungere gli obiettivi datisi a livello internazionale, devono impegnarsi a più livelli operativi, sia cioè a diverse scale, sia

  a livello economico, sociale ed ambientale. Ma lo sviluppo sostenibile, così com’è stato costruito, è anche un difficile compromesso per provare ad attuare una conciliazione tra l’imperativo economico del profitto, dato dalla crescita economica continua (quantitativa)

  e quello politico-sociale dello sviluppo umano (qualitativo). Ecco la ragione per cui vari osservatori lo hanno criticato, considerandolo un ossimoro o un’antinomia. Rist, ad esempio, espone critiche sferzanti al nuovo paradigma, e conclude che lo sviluppo sostenibile servirà a rafforzarne l’interpretazione dominante, cioè quella che vede nello sviluppo durevole un invito a far durare lo sviluppo, inteso ancora una volta come “crescita economica” e per di più universale ed eterna. I palliativi ambientali e sociali servirebbero dunque a mettere in atto un operazione di mascheramento per placare i timori provocati dalla crescita illimitata e per impedirne, infine, la sua radicale messa in discussione. 123

  Questo modo di intendere lo sviluppo sostenibile è stato definito della sostenibilità debole (tipico anche della disciplina dell’economia dell’ambiente), in contrasto con la sostenibilità forte . Quest’ultima, cui fanno parte le critiche di Gorgescu Roegen all’economia, assume l’esistenza di un livello critico di capitale naturale al di sotto del quale si mette a rischio la sopravvivenza dell’ecosistema-Terra. la sostenibilità debole, invece, è una lettura della sostenibilità di quello schieramento di economisti e scienziati “ottimisti” circa la possibilità di gestire la scarsità delle risorse attraverso l’innovazione tecnologica e il mercato, che perseguono l’obiettivo primario della crescita economica: questo schieramento, parte del pensiero economico dominate, accetta la sostituibilità del capitale naturale con il capitale economico e sociale 124 . Le due visuali, pur con varie sfumature, sono diametralmente opposte anche sulle misure da intraprendere: all’interno della sostenibilità forte si iscrivono i fautori della crescita zero (come lo stato stazionario predicato da Hermann Daly) e quelli della decrescita, attraverso un cambiamento radicale dei modi di vita. Tornando a Georgescu Roegen, egli considera il mondo della produzione non come un processo circolare di creazione di ricchezza, ma come uno lineare di degrado della natura, cui bisogna porre rimedio solo con una diminuzione di produzione e consumi. Dopo Georgescu Roegen si è sviluppato, negli anni, un vasto movimento “alternativo” di sostenitori della decrescita, in parte coincidente con i movimenti di Porto

  122 Cfr. Vallega, op. cit., p. 18. 123 Cfr. Rist G., op. cit., cap. “L’ambiente o la nuova natura dello sviluppo”. 124 Cfr. Tinacci Mossello M., op. cit., p.75.

  Alegre, in parte formato da studiosi eterodossi. Uno dei promotori del variegato movimento per la decrescita Mauro Bonaiuti, più recentemente ha esposto una critica della sostenibilità debole e alla teoria neoclassica della sostituibilità tra capitale naturale e capitale umano 125 , sviluppando le idee di Georgescu Roegen e del suo allievo Hermann Daly. Bonaiuti nota che solo lavoro e capitale sono sostituibili (sebbene con le note ripercussioni sociali), mentre questi due fattori della produzione sono essi stessi una combinazione tra materia, energia e conoscenze: tra questi tre livelli vi può essere una relazione di complementarietà e non di sostituibilità. Bonaiuti, poi, ricorda come la teoria neoclassica consideri solo i flussi che attraversano il processo economico, e non gli stock (che nella sua analisi sono 4: il capitale naturale, il capitale o ricchezza, le relazioni sociali e le conoscenze e i valori. Il capitale naturale, in particolare, non richiede sforzi produttivi in quanto esiste già, e comprende i cosiddetti beni comuni (acqua, aria, terra, patrimonio genetico ecc.), che, non a caso, sono sottoposti a pratiche e politiche di privatizzazione da parte del capitale internazionale. Fatte queste premesse, e interrogandosi sul benessere della società, l’autore elabora un nuovo approccio, sistemico, della teoria del consumatore

  e della soddisfazione del benessere, in cui il benessere è il portato dell’interazione tra stock

  e flussi. Questa affermazione è valida in special modo date alcune tendenze: nel contesto attuale gli stock sono minacciati; il benessere occidentale non ha risolto, ma ha provocato diffuse forme di malessere nelle periferie del mondo; l’aumento del Pil e dei consumi individuali, oltre una certa soglia non aumenta il benessere ma tende a ridurlo. Quindi, la sua proposta finale sta nella valorizzazione auto-sostenibile dei territori, in cui il benessere debba essere visto come un equilibrio multidimensionale tra natura e società, e che possa far invertire le dinamiche auto-accrescitive dell’immissione di flussi di energia e materia nel sistema produttivo. Una società conviviale (nel significato di Ivan Illich) organizzata in modo da recuperare le esternalità negative del sistema produttivo, con l’affermarsi di un’economia locale e di pratiche partecipative di gestione del territorio, è grossomodo il senso dell’utopia di Bonaiuti.